Persone
Cerco di sognare, e con passo leggero e felpato, nella
realtà di un passato non poi tanto lontano, immagino di intravedere la sagoma
di un vecchio partigiano su di una finestra aperta, con quel volto sorridente e
invitante che ti porta con serenità a dialogare per ritrovare equilibri
quotidiani sempre più svaniti nel nulla.
I suoi occhi scrutano quell’orizzonte che rievoca un
passato in cui non è stato possibile ritrovare né vinti, né vincitori.
Le braccia sono protese in avanti in una sorta di
abbraccio senza confini che comprende tutti: neonati, bambini, gente comune e
visitatori di piazza.
E dal suo essere uomo ti fa capire una verità unica: “la
felicità è una dimensione che si assapora in attimi, poi svanisce”.
Un vecchio partigiano è tutto questo, perché con modestia,
ma accurata sollecitudine ha saputo mantenere vivi i rapporti con istituzioni e
persone per regalare, tramite messaggi e rievocazioni, cariche di infinita
umanità, la visione di un mondo che deve impegnarsi a percorrere le strade che
portano alla conquista della libertà, alla soddisfazione dei bisogni primari,
alla conoscenza delle nostre diversità
per costruire i veri pilastri del futuro.
A volte nel racconto degli eventi si è smarrito, ma non si
sono mai spenti il sorriso e la serenità del suo volto.
Le sue radici lontane, accomunate da memoria dolcissima e
presenza di fatti appassionati, hanno avuto il sapore del gesto gratuito e
della solidarietà, quella speciale qualità che ci rende davvero unici nel
mondo.
Insomma, questo uomo, che abita nel tuo paese, che non hai
idealizzato, con aria umile e sincera ti invita a lasciare aperta per sempre la
finestra della vita per conquistare orizzonti sempre nuovi e in continua trasformazione,
senza sfide interculturali e dissapori esistenziali.
Rita Neri
La storia dei miei nonni durante la seconda guerra
mondiale raccontata da mio babbo. AI tempo della seconda guerra mondiale i miei
nonni abitavano in un piccolo podere chiamato "Furina" dietro il
macello di Casola Valsenio. Avevano una mucca e un vitello.
Mio nonno in quel tempo era nei soldati e mia nonna a casa
con un bimbo di qualche anno ed uno appena nato.
Nonna doveva fare tutti i lavori della stalla e nel campo,
raccogliere il fieno, seminare, mietere il grano, vendemmiare l'uva e inoltre
tutte le sere mungeva la mucca e la mattina vendeva il latte fresco portandolo
di casa in casa nel paese. Con i soldi ricavati dalla vendita del latte,
comprava quello che serviva per la famiglia. Queste cose le faceva quando la
guerra dava un po' di tregua, perché c'era sempre il pericolo dei
bombardamenti.
Nel momento più pericoloso, quando a Casola c'erano i
tedeschi, mia nonna sfollò alla "Costa di Zattaglia" dove abitava la
sua famiglia; in quella casa si erano radunati molti parenti. Pensavano di
essere più tranquilli che in paese. Invece si verificavano atti di guerra molto
gravi: l'uccisione di un tedesco che stendeva il filo del telefono provocò la
rappresaglia dei tedeschi che uccisero 10 contadini; un bombardamento aereo, le
incursioni notturne dei partigiani che cercavano cibo.
Col ritirarsi dei
tedeschi da Casola, mia nonna tornò alla “Furina” pensando che i pericoli della
guerra fossero finiti, ritrovò la sua casa saccheggiata e molte cose rubate.
A Casola c'erano gli alleati e con loro un reparto di
indiani che facevano paura perché avevano sempre con loro la scimitarra.
Al “Macello” furono collocati alcuni di questi indiani,
per passatempo si facevano delle piadine e le cuocevano su un sasso e
ripetevano a mia nonna: "Niente paura, noi buoni" . Giocavano con i
bimbi e dormivano nella stalla.
Ci furono molti bombardamenti su Casola da parte dei
tedeschi che erano sui gessi e provocarono numerosi morti e distruzione. Anche
mia nonna per poco non veniva colpita; mia nonna era nell'aia, quando sentì
fischiare le bombe, corse per andare in casa ma non fece in tempo perché una
bomba cadde nell'aia e la fortuna volle che fosse protetta dalla scala di sassi
che serviva per entrare in casa e tutte le schegge si piantarono nelle pareti
della casa e sull'uscio di casa.
Francesca B.
Una mattina un tedesco sparò ad un partigiano. Il
partigiano ferito andò in una casa a farsi curare, lì abitavano due fratelli. Poco
dopo i tedeschi interrogarono tutti noi sul partigiano.
Passato un po' di tempo ci interrogarono ancora, per
vedere se dicevamo altre notizie.
Avevano puntato contro di noi una mitraglia,
e intanto ci contavano, poi contavano anche le pallottole. Eravamo appoggiati su
una facciata di un capannone, sull'altra facciata c'erano i due fratelli che
avevano dato ospitalità ai partigiani.
Un certo Pasquali aveva detto di aver visto i due uomini
spararsi, ma la mattina queste cose non le aveva confermate.
Allora il soldato gli diede un pugno tanto forte da farlo
cadere in un fosso, poi lo portò a fare compagnia ai due fratelli.
Poi appiccarono un fuoco dentro al capannone per bruciare
tutte le nostre provviste, le fiamme venivano verso di noi, cercavamo di fare
qualche passo in avanti, per non bruciarci. Sentivamo tutti i rumori, tra cui
quello delle botte che i tedeschi davano ai due fratelli e a Pasquali. I
soldati li picchiavano a sangue per avere più notizie e perché non si poteva
curare un partigiano. I due fratelli e Pasquali cominciarono a pensare di
scappare, e se li avessero uccisi, sarebbero morti senza tante sofferenze. Decisero
di mettere in atto il loro piano.
I due fratelli scapparono per strade diverse, mentre
Pasquali scappò verso il fiume. Non riuscirono ad andare molto lontano perché
furono uccisi tutti e tre. Ci mandarono tutti nelle nostre case, ma le trovammo
tutte distrutte, fummo costretti ad andarcene via.
Testimonianza
raccolta da Ilaria F.
Dal 1943 al 1945 la mia nonna era stata in collegio a
Casola Valsenio nel periodo di guerra. Nel collegio c'erano circa 100 bambine,
la vita era molto dura, perché c'era poco da mangiare. Le bambine venivano
trattate male, non si poteva parlare nelle ore di lavoro altrimenti volavano
schiaffi, pizzicotti o castighi che consistevano nel restare senza merenda o a
letto senza cena.
La merenda consisteva in fette di pane e raramente una
mela. Al mattino latte in polvere. A mezzogiorno davano da mangiare il riso,
nel quale ci si trovava qualche verme, oppure maccheroni o zuppe discrete. A
volte riceveva la visita della sua mamma che le portava qualche uova sodo
oppure un po' di frutta e per lei era una gran festa.
Quando il fronte arrivò in paese la mia nonna uscì un po'
dal collegio e andò con la famiglia a casa dei nonni: a Meleto. Attraversando
il paese notarono che era tutto deserto, case distrutte, calcinacci dappertutto
e gatti morti. La mia nonna rimase con la famiglia quattro mesi, poi tornò in
collegio, perché le bimbe delle suore si trasferirono in un convento vicino a
Palazzuolo chiamato Acquadalto.
Il trasporto fu molto drammatico, perché tutti i ponti
erano stati minati e fatti saltare. Per attraversare il fiume Senio i soldati
le legarono nelle corde e le tirarono dall'altra parte: "Quanta paura
quella notte”
Testimonianza
raccolta da Licia B.
Io abitavo alla casetta di Baffadi, poco distante dal
ponte di Baffadi. Una sera abbiamo sentito degli aerei che sorvolavano il
ponte. Io e i miei fratelli siamo usciti di casa per vedere che cosa stesse
succedendo: abbiamo visto alcune luci che scendevano verso il ponte. Impauriti
siamo ritornati in casa. La sera stessa e per alcuni giorni vennero a dormire
alcune persone che abitavano nelle case vicine al ponte.
Dopo alcuni giorni i campi del fondovalle si riempirono di
cannoni portati dai tedeschi, che cercavano di contrastare l'avanzata degli
alleati. Per il timore dei bombardamenti, ci rifugiammo in alcune grotte,
scavate anche da noi nella riva del rio di Riovalle. Rimanemmo lì per circa
venti giorni. Mangiavamo lungo il corso del rio e durante i bombardamenti e la
notte ci rifugiavamo nelle grotte.
Cominciavano i primi freddi, pioveva, a volte nella grotta
ci svegliavamo con la schiena bagnata. Andammo quindi nella stalla di una casa,
che si trovava vicino alla nostra abitazione e dormivamo nella stalla perché in
casa c'erano i soldati tedeschi.
Una sera sentimmo un gran boato, "Ponte kaput",
esclamò un soldato tedesco. Il grande ponte di Baffadi, minato dai tedeschi in
ritirata, era crollato. Scappammo di nuovo e ci rifugiammo in località Monte
Brullo, dove rimanemmo per circa un mese. Dormivamo in un capannone, perché la
casa era piena di sfollati. Avevamo due mucche da latte e due vitelli che
avevamo legato nel bosco. Il latte era il nostro alimento principale. Quando
qualche pecora o un vitello venivano uccisi dalle granate, gli uomini ne
tagliavano dei pezzi che venivano cucinati per tutti gli sfollati.
Sentivamo spesso il rumore delle cannonate, delle mitragliatrici,
delle bombe. Eravamo esposti a ogni pericolo, quella tettoia non ci avrebbe
certamente difeso. La sensazione del pericolo era in tutti e i bambini
restavano spesso vicino alle madri.
Un giorno, dato che ormai il cibo scarseggiava, io, uno dei
miei fratelli e un mio cugino, ci facemmo coraggio e andammo nel campo del
nostro podere per raccogliere uva, senza pensare che ci saremmo trovati in
mezzo agli schieramenti nemici: quello alleato e quello tedesco.
All'improvviso, dai monti, gli alleati cominciarono a
sparare, forse ci avevano scambiati per spie. I colpi cadevano fitti, i rami
degli alberi vicini a noi vennero tutti tagliati. Ci gettammo in un fossato,
mentre intorno a noi tutto bruciava. Avevamo poche speranze di rimanere in
vita.
In modo provvidenziale, un gran fumo si alzò dal
fondovalle, era provocato dagli alleati che stavano costruendo un ponte,
distrutto in precedenza dai tedeschi. Tale cortina fumogena serviva per
nascondere l'attività degli uomini che stavano costruendo il ponte. Riuscimmo a
fuggire grazie a quella coltre bianca che copriva il paesaggio fino a Monte
Brullo.
Dopo un mese
circa, quando i tedeschi si erano ritirati di alcuni chilometri, ritornammo
alla nostra casa dove non era rimasto nulla, neanche le porte. Tutti i mobili
erano stati distrutti e utilizzati dai tedeschi come legna da ardere. Dormimmo
per molto tempo in solaio, sopra un ammasso di grano che qui era rimasto. Ad
alcuni di noi i topi rosicchiarono i calcagni. Le scene tragiche non erano
terminate, spesso passavano davanti a casa muli che trasportavano soldati
morti.
Era inverno, avevamo pochi vestiti, con pezzi di tela
raccolti in alcune buche, dove c'erano state delle postazioni militari, facemmo
delle gonne e dei calzoni. Per i soldati alleati facevamo delle maglie con la
lana ottenuta disfacendo delle calze che essi ci davano. Ci pagavano con alcuni
generi alimentari. Con gran fatica la vita riprendeva a poco a poco.
Testimonianza
raccolta da Davide V.
Sono nato nel 1922, per cui allo scoppio della Seconda
Guerra Mondiale avevo quasi 20 anni: si può dire che ho festeggiato il mio compleanno in guerra… Ho vissuto
l’esperienza della guerra in giro per l’Europa, e precisamente nell’Europa
dell’Est.
A 18 anni fui chiamato a Ravenna per la visita militare e
fui dichiarato “di sana costituzione”, per cui rimasi in attesa di una risposta
che arrivò il 15 gennaio 1942.
La mia destinazione fu Bari (Artiglieria). Dopo un periodo
di addestramento, sbarcammo in Montenegro, altopiano di Niksic, un lembo di
terra situato fra l’Albania e la Jugoslavia. Proprio in quella zona i partigiani
di Tito ci attaccarono, ma ebbero la peggio. Il nostro campo si trovava a 750 metri sul livello del
mare, in un punto molto panoramico. Sotto avevamo il fondo valle ed un vasto
paese. In lontananza si intravedeva Titograd che, al momento della guerra, si
chiamava Pothgornica. Anche in questo punto era di stanza un nostro corpo di
armata, il 13°. A Titograd ci furono forti combattimenti con i partigiani, con cinque-seimila
morti. Devo ammettere, come soldato semplice, di essere stato trattato bene
dalle persone locali, compresi i partigiani che facevano capo a Tito.
D’estate era caldo, mentre d’inverno il vento gelido si
faceva sentire. Per non rimanere nelle tende ancorate male al terreno,
sfruttavamo le risorse di un territorio piuttosto sassoso. Avevamo costruito a
secco piccole capanne, ma inavvertitamente non avevamo calcolato la direzione
dei venti, per cui l’ingresso faceva entrare a grosse folate il vento gelido e
dentro si moriva dal freddo.
Io ero addetto al materiale militare della compagnia
(batteria); ero guidato da una persona più grande di me che aveva partecipato
alla Prima Guerra Mondiale, per cui a me
toccavano tutti i turni di guardia. Di stanza con noi si trovavano persone di
età compresa tra i 20 e i 30 anni. Il mio capo mi diceva cosa dovevo fare ed io
eseguivo gli ordini. I viveri venivano riforniti tutti i giorni e per fare
questo c’erano i soldati che si servivano dei muli. Altri soldati, invece,
sempre con i muli, cercavano di rifornire d’acqua l’accampamento, in quanto
d’estate in zona c’era solo una fontana.
Mi ricordo di un fatto curioso capitato presso questa
fonte. Un miliziano intimò a una donna con una bimba piccola di non prendere
l’acqua e di rimettersi in coda; i soldati, constatata la situazione, con
sguardi bassi si misero d’accordo e permisero alla donna di rifornirsi, facendo
un muro umano sul miliziano.
La popolazione locale fu sempre corretta con noi soldati
semplici, invece ce l’avevano molto con i miliziani, i carabinieri e i
finanzieri. Una volta uscimmo in colonna per portarci in un’altra zona e i
partigiani di Tito fecero scoppiare una mina a inizio e fine colonna; sentii il
mio comandante urlare “Si salvi chi può!”. Fummo circondati dai proiettili, ci
salvammo in due perché, dopo esserci buttati a terra, avemmo la fortuna di
nasconderci in un tombino, situato ai margini della strada. Per quasi tutto il
giorno rimanemmo fermi a contatto con l’acqua, pur di avere salva la vita.
Il giorno dopo ci dirigemmo verso il basso, raggiungendo
un piccolo ruscello, sparammo in alto due colpi e una nostra pattuglia ci
individuò. Facemmo così ritorno al nostro campo, senza essere dichiarati eroi,
anzi, il giorno dopo ci rimisero in servizio. Quando il tempo peggiorava e si
metteva a piovere, i partigiani ci attaccavano e noi eravamo tenuti a
difenderci con delle mitragliette della “FIAT” che si inceppavano sempre, per
cui non potevamo avere efficacia offensiva. Con noi avevamo sempre un fucile,
simile a quello che ora hanno in dotazione i Carabinieri, cinque colpi li
mettevamo in canna ed uno lo tenevamo in tasca, per ordine del nostro
comandante. Quanto al vestiario, non eravamo messi male: d’estate indossavamo
la camicia sottile e d’inverno quella di flanella.
Io sono stato fortunato perché mia madre, alla partenza,
mi aveva dato una maglia di lana lavorata a mano: è stata provvidenziale in
tutti i miei spostamenti. La persi quando da Bolzano ritornai verso casa, al
termine della guerra, ovvero il 15 luglio 1945.
Nell’accampamento avevamo due medici, uno dei quali si
interessava dei medicinali, l’altro invece ci curava. Comunque sia, se un
soldato aveva la febbre alta, veniva curato, ma non poteva permettersi di stare
a letto: veniva messo a pelare patate. Noi mangiavamo abbastanza bene. La
domenica arrivava sempre la pasta asciutta, tramite il trasporto a carico dei
muli, ma era poca e avevamo tanta fame. Gli altri giorni invece si mangiava
verdura secca, piselli, patate, pane.
Non ho mai visto compagni morti mentre ho visto dei
feriti. I soldati morti venivano sepolti a poca distanza dall’accampamento.
Alcuni di questi feriti avevano riportato gravi lesioni alle gambe per colpa
delle mine. Solo una volta mi ricordo che un cannoncino scoppiò a causa della
disattenzione di un soldato che aveva lasciato per tutta la notte lo stantuffo
dentro il cannone. La mattina, alla ripresa dei preparativi, il cannoncino
scoppiò, un militare morì ed altri quattro rimasero feriti. In questo campo
strategico di difesa, la vita tutti i giorni trascorreva uguale nel lavoro,
ovvero si faceva la guardia e si sparava, se necessario. Solo la domenica si
faceva festa e allora, a piccoli gruppi, si cercava di scendere in paese dove
c’era un’osteria per mangiare. Alcuni soldati pagavano, altri invece piantavano
il pugnale sul tavolo e se ne andavano dicendo: “Paga il duce!”.
Dopo un anno di permanenza a Niksic, arrivò l’ordine di
spostarci a Titoghrad. I carristi del nostro reparto si consegnarono ai
Tedeschi, noi invece venimmo fatti prigionieri e inviati in un campo di
smistamento a Belgrado con più di 200 baracche. Da qui ci fecero scrivere alle
nostre famiglie su carta militare tedesca; dopo tanti anni ho saputo che, in
conseguenza di questo fatto, a mia madre avevano tolto il sussidio, in quanto
ritenevano che fossi entrato nell’esercito tedesco. Purtroppo nulla di tutto
questo era vero: ero soltanto prigioniero in un campo di lavoro.
In seguito venni inviato ai confini con la Romania , vicino al fiume
Danubio, in una località chiamata Pozarevac (22/10/43); qui era di stanza una
compagnia addetta alla messa a destinazione di una linea di alta tensione.
Venimmo suddivisi in piccoli gruppi: alcuni andavano a riparare le strade,
altri tagliavano gli alberi nei luoghi in cui sarebbe dovuta passare la linea
di alta tensione, altri ancora mettevano in piedi pilastri portanti in cemento,
alti dai 15 ai 75-85 metri .
Rimanemmo a Pozarevac quasi un anno. Qualora ci servisse del materiale di prima
necessità, come ad esempio ago e bottoni, noi davamo i soldi ai bimbi che si
incaricavano di eseguire la consegna per noi prigionieri. Nessun bambino ci ha
mai fregato.
In questo paese, 1200 giovani vennero inviati dai tedeschi
ai campi di concentramento; per le strade era possibile incontrare soltanto
donne, bambini e persone anziane. Non so quanti di questi abbiano potuto fare
ritorno alle loro case. Partimmo da Pozarevac con l’ultimo treno, io avevo
sempre la febbre, per cui mi caricarono nelle ultime carrozze. I vagoni erano
quelli che usavano per trasportare le bestie, che si aprivano soltanto da
fuori. Per i nostri bisogni personali ci arrangiavamo con dei barattoli. Pur
essendo destinati a Vienna, il nostro il treno, a causa di un ponte abbattuto,
ritornò indietro per poi ripartire in direzione dell’Ungheria. Al confine tra
l’Ungheria e l’Austria subimmo un bombardamento, il treno venne centrato da una
granata, per cui restammo fermi per un giorno. Rimanemmo senza viveri e senza
acqua, in quanto avevamo con noi solo alcune scatolette.
Da Vienna ci condussero a Horn, in un paesino di nome
Schimouschein: qui passammo un inverno molto freddo (Natale 1944), lavorando
alla costruzione di una fabbrica. Era tanto e tale il freddo che la terra
scavata era ghiacciata fino a 40/50 centimetri di profondità. Proprio a
Schimuoschein incontrai una donna anziana a cui i tedeschi avevano portato via
i due figli. Lei mi portava lo stufato di pomodori e mi abbracciava, perché
riteneva di incontrare giorno per giorno i suoi figli. L’amore delle madri in
guerra non ha confini.
In Austria le patate, prima dell’inverno, venivano tolte e
disposte in solchi nei campi. Sopra di esse venivano disposti una strato di
paglia ed un altro di terra. Con questo sistema, sotto la neve e il ghiaccio,
si mantenevano intatte. Finito il nostro lavoro giornaliero, la sera andavamo
in perlustrazione per trovare qualcosa da mangiare. In prevalenza noi eravamo
contadini, per cui conoscevamo bene i campi e i loro prodotti.
Ricordo bene, a tale proposito, le lamentele di un prete
che, dopo aver celebrato la
Messa , protestò con noi perché gli avevamo rubato tutte le
patate. Agli inizi, quando arrivammo a Horn, in una lingua molto insicura
chiedevamo di avere del pane, ma la gente locale aveva solo della polenta e non
era male.
Successivamente scoprimmo che, nella loro lingua,
chiedevamo polenta e non pane. Sempre a Horn venni inviato in cucina a tagliare
la legna per le stufe insieme a un mio coetaneo. Il sabato o la domenica,
quando andavamo a tagliare la legna, una signora che lavorava presso la nostra
mensa, ci dava da mangiare.
Da Horn ripartimmo il 3/4 maggio del 1945 in direzione Linz.
Percorremmo a piedi circa 15/20 Km e poi, ancora, camminammo fino a Linz. A un
certo punto sapemmo, via radio, che la guerra era finita: era il 9-10 luglio
del 1945. Dopo la liberazione raggiunsi Bolzano, dove i treni venivano aperti e
per noi era una festa, in quanto ci veniva offerta una specie di tessera per avere
il cibo. Noi giovani passammo 3-4 volte a prendere il cibo, tanta e tale era la
fame. A Bolzano difatti erano di servizio gli aiuti umanitari.
Fu qui che
incontrai due giovani, uno di Lucca e uno di Imola, provenienti dai campi di
concentramento di Mathausen. Giuro che nel vederli si notavano solo ossa e
vene, non esisteva altro. Il giovane di Imola dopo 40 giorni di ospedale si
riprese, quello di Lucca non l’ho più rivisto. Comunque sia, nell’aspetto erano
davvero impressionanti. Da Bolzano, su un camion militare, raggiunsi Modena,
dove dormii nella sede dell’Accademia Militare. Il giorno dopo ripartii con la Croce Rossa ,
raggiungendo Faenza.
Mi fermai a mangiare da mia zia e lì imparai che
nel mio paese c’erano stati aspri combattimenti. Nella mia famiglia non era
morto nessuno, ma da parte dei miei zii si contarono quattro morti (due a causa
delle mine, uno con i partigiani, e uno vittima del crollo di una stalla in cui
aveva cercato rifugio).
“Sono stato in
giro per l’Europa e ho vissuto una guerra ai margini del grande fronte ma, la
guerra rimane tale in tutte le zone del mondo e mette sempre sul piatto
quotidiano la fragilità della tua vita”.
Testimonianza di
Mario Rivola raccolta dalla classe IIIA - scuola media
Il 25 aprile,
Casola, che fino a quel momento era stata "terra di nessuno" venne
liberata ed i primi soldati che vedemmo erano indiani e negri, i tedeschi prima
di partire avevano smantellato i cannoni che avevano posto e dove passavano,
distruggevano e minavano i ponti, le strade, ecc.
Quando arrivarono i liberatori, noi ci chiudemmo in casa,
impauriti e tante ragazze di campagna si riunirono nel collegio delle suore. Una
sera un gruppo di alpini bussò alla nostra porta, e ci dissero: "Aprite,
siamo italiani della Julia". Così ritornammo a casa nostra per
ricostruirla.
Ero nella 36ª
Brigata Garibaldi (ottobre 1944) e quel giorno ero venuto a Ca’ Cornacchia per
prendere dei viveri e degli ordini da portare in Brigata. Ci fu un grosso
bombardamento a Casola e vidi le bombe cadere vicino al Casermone (dove c'erano
i miei genitori: Enrico, Elvira e quattro fratelli). Aspettai che la gente
fuggisse verso Pagnano e verso Casoletto, chiesi notizie. "Ci sono quattro
- cinque morti" mi risposero. Preoccupato scesi verso Casola e sul rio
incontrai tre tedeschi ai quali raccontai, piangendo e a gesti, cos'era
capitato. Loro capirono e mi lasciarono passare.
Quando sono arrivato al casermone trovai una scena
terribile: un'intera famiglia era stata uccisa, due bambini e tutta la famiglia
Farolfi. I miei genitori, per fortuna, erano scappati la mattina verso il
rifugio della Chiesa di Sopra. I miei non li ho trovai subito perché nel
frattempo si erano spostati a Valsenio, al Poggiolo. Era freddo, ma io avevo un
paio di pantaloni corti e una sola maglia. Nel rifugio, sotto terra dormivano,
uno vicino all'altro, dieci o più persone, in fuga per non andare in Germania.
Un giorno tre tedeschi presero me e mio fratello e ci
costrinsero a trasportare delle radiotrasmittenti verso il ponte dei Monteroni.
Mio fratello aveva quindici anni ed io ventitré: eravamo pieni di paura perché
non sapevamo cosa ci aspettasse. Dissi a mio fratello di tenersi pronto a
scappare una volta che avessimo appoggiato le cassette. Approfittando del momento
in cui i tedeschi montavano le radio, scappammo. Una raffica di mitra ci seguì,
ma la nebbia ci salvò.
Dicembre ’44: la morte di mia sorella Carla. Una mia
sorella, Carla, di sedici anni, era rimasta uccisa da una scheggia di granata.
Abitava alla Villa Bottonelli ed era seduta vicino al camino insieme alle due
sorelle. Era caduta una granata (veniva dai Gessi) in mezzo alla strada, una
scheggia colpì un ciliegio, è entrata attraverso la finestra e le si conficcò
nel petto. La presi in braccio e la portai in cantina pensando che fosse solo
svenuta, ma nel posarla, mi accorsi di avere le mani sporche di sangue. La
portammo all'ospedale di campo che era nel palazzo Ungania, a me e alle mie sorelle
tolsero un fiasco di sangue per ciascuno, per aiutarla, ma lei, poi, morì.
Intervista di
Cecilia I. a Nevio Magigrana
Il mio nonno non parla volentieri del tempo della guerra
perché ha dovuto partecipare alla guerra di Croazia. So che gli sono rimasti
dei brutti ricordi, anche se, fra tanti, è stato uno dei fortunati; è stato
ferito gravemente e questo gli ha permesso di tornare a casa, perché da quella
guerra ne sono tornati veramente pochi.
Mio nonno invece mi ha raccontato che al tempo della
guerra c'era molta scarsità di viveri perché la maggior parte venivano spediti
ai soldati che erano in guerra. Quelli che rimanevano, erano destinati alla
popolazione. Venivano distribuite delle tessere dove c'erano dei bollini che
venivano staccati quando si faceva la spesa. Ogni bollino serviva per una
razione di pane o di pasta e generi di prima necessità, ad esempio 150 grammi di pane, 50 grammi di pasta. In
campagna veniva razionato il grano e quello che avanzava, il contadino doveva
assegnarlo ai magazzini.
La mia nonna mi racconta che abitava in campagna, aveva le
mele e le portava a scuola per merenda, poi ne dava un po' alle sue compagne
che non avevano niente. C'erano pochi vestiti e poche scarpe, quando le scarpe
si bucavano sotto, si montavano con i chiodi sopra ai fondi di legno e si facevano
gli zoccoli. Per fare un po' di luce nelle case si usavano barattoli, uno
stoppino di cotone e un po' d'olio, perché non si trovavano né candele né
petrolio.
Le case erano fredde, c'erano poche coperte e per
scaldarle si usava uno scaldino di rame con dentro le braci, prima di andare a
letto. Oltre alle privazioni e alla miseria c'era anche molta paura.
Testimonianza
raccolta da Fabrizio F.