
Nessuno salvò il soldato Harry.
Una granata se lo portò via il 5 ottobre del 1944, sui monti sopra Bologna,
mentre dormiva nel suo fox-hole, la sua buca nel terriccio, stremato da ore di
mitragliatrice. Ma Harry è tornato a casa lo stesso, sessant'arini dopo, come
un Ulisse sfortunato, grazie a due amici sconosciuti e appassionati.
Il
«metallaro» si chiama Renzo Grandi, e tutti a Imola sanno che da trent'anni,
quando smonta dalle sue otto ore d'officina, acchiappa il metal detector e va a
setacciare filo d'erba per filo d'erba le pendici dell'Appennino, là dove il
generale Glarke sfondò la
Linea Gotica al prezzo di migliaia di vite, e dove basta
grattare un po' le zolle perché saltino fuori proiettili, borracce, distintivi.
Grandi ne ha una collezione in cantina, ma i pezzi più belli li regala al museo
di Castel del Rio che ha fondato con alcuni amici. Quel 3 di giugno del '96
dalla terra di Monte Battaglia riemerse un elmetto americano. Solo che, sotto,
c'era anche il proprietario, addormentato lì da mezzo secolo. «Era ancora
coricato su un fianco, un po' rincantucciato».
Vennero quelli del consolato
Usa, impacchettarono il mucchietto d'ossa e se lo portarono via. A Renzo
rimasero un paio di anelli, un braccialetto d'argento, un orologio, un
portafogli con la fotografia di una ragazza e la piastrina con un nome: Harry
Castilloux, un numero di matricola, 35895836, e una data di nascita, 24
settembre 1920. Quei reperti, però, non finirono nè in cantina, nè al museo:
«Erano tutto ciò che restava di una vita umana. Non erano roba mia. Dovevo
restituirli alla famiglia. Dovevo riportare Harry a casa».
Ma quale casa? Dove? Al consolato
americano tutti cortesemente muti, neanche una parola, «per rispetto della
privacy». Renzo stava per rinunciare. Ma qui entra in scena Alberto Forchielli,
imprenditore e ciclista appassionato, tanto che s'è comperato l'Atala (non solo
la bicicletta:tutta quanta l'azienda). Ha una villetta a Montecatone, e da
queste parti ci si conosce tutti:«Alberto> tu che vai spesso n America, puoi
mica aiutarmi a fare qualche ricerca?».
Alberto negli Usa ci ha studiato,
ad Harvard: «Pensavo che fosse una cosa da niente, qualche telefonata». Invece,
accidenti, fu come cercare un ago in un pagliaio. Inutile chiedere alle
autorità: «Sono salito fino al Pentagono: gentili ma riservatissimi». Ricerche
sui siti specializzati, telefonate alle associazioni di reduci, centinaia di
lettere, niente. Niente per anni. «Ma intanto Harry mi cresceva dentro, mi
occupava la mente giorno e notte. Mi era scattato il transfert. Chi era quel
ragazzo che poteva essere mio padre, morto all'età di mio figlio, a cui mi
stavo affezionando come a un fratello? Cosa lo aveva portato a morire qui,
vicino a casa mia? Aveva una madre, una moglie, dei figli? Facevo l'alba
attaccato a Internet, volevo andare fino in fondo».
Qualche mese fa, un colpo di
genio:
«Ho comperato online il
censimento Usa del 1930». E li, viva i portenti dell'elettronica,
fra milioni di nomi ecco quello del piccolo Harry Castilloux, nove anni, residente a Royal Oak, Michigan, un sobborgo di Detroit, assieme ai genitori e a cinque fratelli e sorelle. A quel punto è bastato un elenco telefonico. «Sì, mi chiamo Albert Castilloux. Sì, mio fratello Harry morì in Italia durante la guerra, ma lei cosa vuole?», la voce dall'altro capo dell'Atlantico era anziana, lucida, ma diffidente. «Temeva che volessi spillargli dei soldi, me lo ha confessato dopo».
fra milioni di nomi ecco quello del piccolo Harry Castilloux, nove anni, residente a Royal Oak, Michigan, un sobborgo di Detroit, assieme ai genitori e a cinque fratelli e sorelle. A quel punto è bastato un elenco telefonico. «Sì, mi chiamo Albert Castilloux. Sì, mio fratello Harry morì in Italia durante la guerra, ma lei cosa vuole?», la voce dall'altro capo dell'Atlantico era anziana, lucida, ma diffidente. «Temeva che volessi spillargli dei soldi, me lo ha confessato dopo».
Invece Rita, un'altra sorella, si fidò: «Va bene, venite, vi
aspettiamo». Così Il soldato Harry è tornato a casa, la scorsa Pasqua. Quel
giorno sotto il portico della casetta di legno di Hazel Park c'erano i
fratelli, tutti ancora vivi, i figli i nipoti.
«Né io né Renzo volevamo
cerimonie: ancora prima di entrare in casa consegnammo a Rita gli anelli,
l'elmetto, le piastrine, il braccialetto con il nome, il portafogli», assieme
a due affettuose lettere di saluto con firme importanti: del presidente Ue
Romano Prodi e del ministro Franco Frattini. «Welcome back Harry», Rita
piangeva baciando l'elmetto arrugginito.
Abbracci, commozione, «Thank you
Alberto, thank you Renzo». «Ho capito in quel momento che non avevo traversato
l'oceano solo per consolare una famiglia», racconta Alberto, «lo avevo fatto
per il mio amico Harry: per conoscerlo, finalmente». Ed era li ad aspettarlo,
naturalmente. Harry, incorniciato e appeso al muro del soggiorno: un ragazzino
della provincia americana, figlio di modesti immigrati dal Canada, viso
sottile, orecchie un po' a sventola, timido e orgoglioso sotto il tocco da
diplomato, l'unico della sua famiglia ad avere studiato e a continuare a farlo,
alle serali, mentre già lavorava da fresatore alla Ford (dove mai può lavorare
un ragazzo di Detroit negli anni' Quaranta?); e poi goffo nella divisa da Gi,
bustina sulle ventitré e distintivo del 350° reggimento, 88' divisione, i Blue
Devils: ma altro che diavolo, «era un ragazzino fragile, sessanta chili, quasi
un bambino, proprio come lo avevo immaginato, solo nei film di Hollywood i
soldati hanno la faccia di Gary Cooper o il fisico di Rambo».
Non ha mal smesso di far domande,
Alberto, ai parenti, agli amici, ai commilitoni di Harry: «Ho saputo tutto di
lui, le sue fughe in barca, o quella volta che mamma gli trovò un condom in
tasca... Ho scoperto un ragazzo dolce, meraviglioso: col primo stipendio comprò
il frigo ai genitori, col secondo unà radio Philco che funziona ancora». Un
personaggio da film di Frank Capra, ma col finale alla John Houston: «Lavorando
all'industria bellica poteva scamparsela, ma non sopportò che in paese
dicessero che era un vigliacco.
Rinunciò alla dispensa, lasciò i suoi risparmi
a mamma Louise e partì per l'Europa». E la ragazza della foto? «Per Rita è
stata una,sorpresa: non so chi sia, mi ha detto, Harry non aveva la fidanzata.
Forse una ragazza italiana una segnorina conosciuta a Livorno: la sua prima
destinazione. Sono sicuro che le ha chiesto di sposarlo».
Nel pacco di documenti che
Alberto ha messo insieme con spirito da biografo e fiuto da investigatore c'è
anche il rapporto militare su «private Castilloux, missing in action»: dice
solo che fu visto per l'ultima volta alle ore 15 del 4 ottobre, quando andò a
riposarsi nella tana che si era scavato sul fianco del monte Battaglia,
l'ultimo picco prima della pianura padana, nove volte preso, nove volte perso,
mille morti sui due versanti. Poco dopo si scatenò l'inferno, gli americani
dovettero ritirarsi. Di Harry nessuna traccia.
Alberto la spolvera con la mano.
«Niente retorica, è stato solo un piccolo atto di giustizia», minimizza Renzo.
«Harry mi ha fatto capire che
nelle guerre non ci sono solo grandi macchine e grandi bombe, ci sono piccoli
uomini che valgono molto di più». Alberto si riscuote: non è tipo da
lacrimucce., il manager ciclista.
Sulla torre medievale in cima al cocuzzolo
sventola una bandiera della pace. «quel che conta è che Harry è tornato a casa,
e ora può riposare». E anche i due amici italiani, dopo sette anni di faticose
ricerche. «Sì, certo. Però... C'è quella ragazza. Quella della foto nel
portafoglio. Chi sarà? Vivrà ancora? E dove?».
MICHELE SMARGIASSI (foto di Roberto
Serra /iguana Press da Venerdì di Repubblica)
Foto di gruppo con i componenti
della famiglia Castilloux - La sigla dello striscione significa "Prisonir of
war, missing in action", l'associazione che favorisce le ricerche sui soldati
caduti o scomparsi in guerra.