Testimonianze - Nella Valle della morte di Giuseppe Pittàno


6 ottobre 1944: la prima luce del mattino filtra opaca dal finestrino della cantina sui corpi assonnati avvolti nella paglia del pavimento. Improvvisamente, secche e decise, alcune scariche di mitra sparate dietro casa rimbombano contro la riva del Sintria. Poi un silenzio carico di cupo presagio. Ci guardiamo muti: nessuno ha il coraggio di fare domande. Non c'è tempo, del resto. Dai campi un gridare agitato si fa sempre più minaccioso: sono i tedeschi che vomitano valanghe di vendette e scaricano i mitra sulle porte di casa e di cantina. Qui grida di disperazione, pianti, abbandoni: scene di panico indescrivibili. Siamo una cinquantina chiusi in una trappola di morte: ci sono due frati, un prete e uno studente missionario che concedono perdoni in extremis. Finalmente le porte si aprono: i tedeschi entrano urlando e sparando. 

Mio padre sanguina, poco sotto il cuore una colata rossa gli esce dal petto; anche Tonino della Fornace ha il volto insanguinato; sua figlia Francesca ha un dito del piede trapassato da una pallottola. Sotto la minaccia dei mitra, con le mani in alto, corriamo ora sulla strada che porta dal Palazzo alla chiesa di 5. Andrea: tre tedeschi giacciono nudi nel fango. «Guardateli, guardateli bene» - urla selvaggiamente un sottufficiale nazista spingendoci avanti col calcio del fucile - «Sono nostri camerati e voi li avete uccisi. E adesso tocca a voi!». E giù spinte e botte. 

I morti sono tre guardafili della linea telefonica che porta al fronte. Sono caduti in una imboscata partigiana. I tedeschi ci spingono ora, poco oltre la curva, in una valletta seminascosta tra i rovi. Davanti a noi un plotone armato e una mitraglia piazzata. «Siamo nella valle della morte: di qui non uscirà nessuno vivo», dico sottovoce a mio fratello Valerio. 
Ci siamo tutti, lì, in piedi, con le mani dietro la nuca: il proprietario del Palazzo, sua moglie, le figlie e il figlio Cavallina; Maria Guidi con il piccolo Beppe di pochi anni; Tonino della Fornace con tutta la sua famiglia; il dottor Angelo Rinaldi Ceroni con la moglie incinta e il piccolo Alberto in braccio; Giovanni Dardi, detto Lungoni, con la moglie e sei figli; i contadini di Orvino, il parroco di 5. Andrea, padre Contoli e padre Bistecca (lo ricordo solo con questo soprannome); poi noi: mio padre Nildo, mia madre Annina, mio fratello Valerio e io. E ce n'erano altri ancora che ora non ricordo bene. 
Siamo in tutti una quarantina o più. La disperazione e la confusione si fanno ora più indescrivibili: da una parte i tedeschi duri e immobili aspettano l'ordine di esecuzione; dall'altra una massa che piange e urla di impotenza. 
In uno scomposto ed allucinante tentativo di sopravvivere le donne alzano i loro figlioletti e l'Anna grida a squarciagola che ne ha uno nella pancia e che non possono ucciderglielo. Io tento inutilmente di parlare ad un ufficiale (avevo studiato tedesco all'Università di Heidelberg) ma vengo brutalmente respinto col calcio del mitra. Ormai si aspetta la soluzione finale: la disperazione si fa convulsa. 
C'è chi chiede l'assoluzione tre o quattro volte: padre Bistecca col suo accento pugliese assolve, benedice, urla, invoca perdono, perde la pazienza e litiga; il giovane studente missionario, magro e allampanato nel suo sdrucito abito nero, allarga le mani al cielo e ripete a voce alta a sua madre: «Mamma, cosa vuoi che sia, andiamo in cielo a vedere Gesù e Maria!». 

La mia famiglia è in prima fila, davanti alle mitraglie. L'attesa è lunga ed ecco finalmente che arriva l'ufficiale superiore. Porta sulla divisa il distintivo da medico. Gli chiedo di poter parlare, lui fa cenno di assenso col capo. Il colloquio è molto breve: «Noi siamo innocenti; se avessimo noi ucciso i tre soldati tedeschi, non ci saremmo certamente chiusi in cantina ad aspettare la rappresaglia, noi giovani per lo meno; non potete massacrare impunemente donne e bambini; qui ormai siete circondati dalle forze partigiane ed alleate e di qui non uscirete vivi neppure voi; questa sarà anche la vostra valle della morte». 
Dopo aver discusso abbastanza animatamente con i suoi, pochi minuti di an­goscia per noi, l'ufficiale ordina secco: «Donne e bambini a casa; gli uomini con noi». 
Nel trambusto alcuni uomini riescono a fuggire con le donne e i bambini. L'ufficiale protesta e minaccia rappresaglia, una breve sparatoria. 
Nella valle della morte ormai siamo rimasti in pochi ostaggi: i contadini di Orvino, i muratori di Lungoni, lo studente missionario, la mia famiglia compresa mia madre, l'unica donna, che vuole morire con noi. Comincia ora il duro calvario su per la salita che porta al Monte, con quei cadaveri nudi e insanguinati sulle spalle. 
La strada è un torrente di fango scivoloso; attorno infuria la battaglia: artiglierie e mitragliatrici incrociano tiri al di sopra delle nostre teste; ronzano gli aerei da ricognizione. Una pioggia noiosa cade sulle nostre spalle grondanti di sudore. Mio fratello Valerio, col cuore gonfio di reumatismi, vacilla sotto il suo pesante carico di morte: un tedesco gli sferra calci e lo minaccia col mitra; mio padre, già anziano e ferito, cerca inva­no di rendersi utile. 

Con lo sguardo impietrito dal dolore, mia madre segue la tragica via crucis che avanza a fatica per la ripida salita del Monte. Giunti al Monte si instaura subito una specie di tribunale. Noi veniamo messi in cantina sotto dura sorveglianza. Uno scambio di parole fra me e mio fratello rischia di scatenare l'irreparabile: un tedesco minaccia e urla che non si può parlare. Io vengo interrogato a lungo mentre l'abitato di Cavina fuma sotto i colpi della rappresaglia. Io conoscevo bene i partigiani che avevano organizzato e compiuto l'attentato ma insistetti continuamente sui problemi della guerra: qui siamo in guerra; siamo in prima linea; qui si combattono tedeschi, partigia­ni, alleati; ogni azione è al di sopra di noi; noi non c'entriamo; se fossimo stati noi non saremmo qui ostaggi, ecc. E così nel secondo interrogatorio del pomeriggio. La notte la passammo in cantina, al buio e al freddo: un po' di cibo fattoci avere dalla famiglia del Monte. 
La mattina dopo un terzo interrogatorio. Poi il rilascio: dovevamo tenerci ostaggi al Palazzo, senza muoverci per alcun motivo. Al Palazzo non ci aspettavano ormai più. Rimasero sorpresi al vederci e ci dissero che avevano passato la notte pregando per noi e il miracolo era avvenuto. Avevano pregato i due fratelli, il prete, Tonino della Fornace, il padrone di casa, tutti quelli che erano riusciti a scappare per fare poi il miracolo di farci tornare sani e salvi. 

La vita al Palazzo intanto trascorreva ogni giorno più grigia e carica di minacce. Un giorno, un giovane tedesco che tutti chiamavamo Eugenio, mi fece delle domande strane: «Tu conosci Radio Londra? La sai la strada per andare a Rimini? Lo sai che se perdiamo la guerra io riprendo gli studi?» Lì per lì feci il tonto: non conoscevo Radio Londra, non sapevo neppure che cosa fosse. Poi siccome lui insisteva, io credetti che volesse spiarmi. Eugenio era un giovane simpatico, aveva sempre voglia di scherzare. Era diverso dagli altri. Ma fin dove? Un giorno volli metterlo alla prova e gli chiesi distrattamente: «Perché, se perdi la guerra, continuerai a studiare? E se la vinci?». «Se la vinco mi rispose - dovrò fare il gendarme dei paesi occupati per tutta la vita». «E perché ti interessa la strada per Rimini?». «Perché la c'è un campo di prigionia inglese». 
Capii subito che potevamo aiutarci a vicenda ma avevo paura di sbagliare manovra. Un giorno Eugenio mi disse che il comando stava per ritirarsi e che avrebbe portato con sé come ostaggi la mia famiglia e alcuni altri uomini. Presi il coraggio a due mani e gli dissi bruscamente: «Perché non scap­piamo insieme?». Eugenio si guardò attorno e mi disse che c'era solo una notte di tempo. La mattina verso le quattro Eugenio era di sentinella al comando. 
Gli consegnai in fretta un bigliettino. Alle cinque eravamo già in fuga: Eugenio, io, mio padre, mia madre e Valerio. 

Alla pattuglia incontrata sulla strada del Monte, Eugenio disse che ci accompagnava al comando di Casola. Era l'alba quando, sul crinale del Cerro, io consegnai ad Eugenio un abito borghese a alcuni indirizzi. Ci lasciammo titubanti e commossi. Come sarebbe finita? Per noi terminò oltre la metà di novembre, quando i tedeschi erano ormai in rotta. Per Eugenio pure finì bene: a Riolo durante una sosta conobbe Don Morigi, al quale lasciò i saluti per me. 
Poi un giorno ricevetti una lettera da Rimini. Sul retro stava scritto: mittente Eugenio Poggi. Era Eugen Repsk, il giovane tedesco che era riuscito a raggiungere il campo inglese e a farsi accogliere con le mie credenziali non come un nemico ma come un profugo. Aveva ottenuto un posto di interprete (sapeva molto bene l'inglese) e una certa libertà. 
Ci siamo scritti per molti anni: abitava a Berlino nei pressi dell' aereoporto di Tempelhof. Mi mandò pure alcuni interessanti opuscoli sulla resistenza antinazista e mi disse che aveva ripreso a studiare. Poi la corrispondenza rallentò, come capita purtroppo a tutti, fino a chiudersi verso il 1949, gli anni della guerra fredda. 
Avevamo sempre promesso di rivederci o in Italia o in Germania. Chissà che un giorno non ci incontriamo a Casola.