Giulio Cavina a Siena


Giulio Cavina a Siena Intervento di  Stefano Maggi

IL MOVIMENTO SINDACALE A SIENA NEL “BIENNIO ROSSO

1. Il sindacalista ferroviere Quirino Nofri deputato di Siena
Durante l’ “età giolittiana” – primo quindicennio del Novecento – nel generale clima di collaborazione tra le forze politiche voluta dal primo ministro Giovanni Giolitti, si verificò una forte crescita del movimento sindacale senese, che portò significativa vittorie anche a livello politico. Nel 1909, ad esempio, fu conquistato il collegio elettorale per la Camera dei deputati con la candidatura di Quirino Nofri, sindacalista dei ferrovieri molto conosciuto in città per la massiccia presenza dei ferrovieri, i quali – grazie alla presenza delle officine di riparazione dei treni – erano circa 800, il gruppo più numeroso di lavoratori cittadini.
Assai importanti furono poi le elezioni politiche del 1913, tenute con il suffragio quasi universale maschile, che prevedeva il voto esteso a tutti i cittadini maschi con almeno 30 anni di età (diminuita a 21 se alfabetizzati o se avevano prestato servizio militare). In queste elezioni fu ripresentato il deputato uscente, Quirino Nofri, appoggiato dalla sezione riformista del partito socialista. Considerato un nemico dai socialisti ufficiali, che criticavano il suo comportamento parlamentare, Nofri raccoglieva il consenso di gran parte della cittadinanza schierata su posizioni democratiche.
A lui vennero contrapposti Alfredo Bruchi, sostenuto dai conservatori, Enrico Falaschi, presentato dall’Unione liberale, Antonio Boggiano per i cattolici (che scendevano per la prima volta in campo) e infine un operaio fiorentino, Filiberto Smorti, candidato dai socialisti massimalisti.
La lotta elettorale del 1913, condotta con estremo impegno da entrambe le sezioni socialiste, ebbe un ruolo rilevante nell’emancipazione politica dei lavoratori della campagna, la maggior parte dei quali votava per la prima volta. I massimi dirigenti a livello nazionale del partito socialista riformista, Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi, intervennero personalmente in favore di Nofri, tenendo due comizi nel collegio di Siena.
Nella settimana precedente il ballottaggio, Quirino Nofri si recò nei municipi del Senese, conducendo numerose assemblee e notando – scriveva il giornale “Il Dovere Socialista” –
<<che un cambiamento profondo si era verificato in mezzo alla massa elettorale. Fra i paesani era vibrante lo sdegno per i metodi veduti seguire dai partigiani del Bruchi... I contadini cominciarono ad intuire che se proprio i loro padroni si erano con tanto ardore gettati nella lotta e se per la buona riuscita di quella mettevano le mani al portafoglio, del quale in tempi normali sono gelosissimi, si era perché essi difendevano un loro interesse, che non poteva essere che in antagonismo con l’interesse dei contadini medesimi>>.
Fu probabilmente questa la svolta decisiva che trasformò Siena in provincia rossa. L’estensione del suffragio ai mezzadri e il trasferire da parte di questi sul piano politico, e quindi sul voto, il contrasto con i “padroni” cui li aveva abituati la lunga tradizione di confronti per la spartizione dei prodotti e la definizione dei patti, costituì il momento decisivo del processo attraverso il quale le “masse” fecero il loro ingresso sulla scena politica.
Tutto questo portò a fortissime agitazioni nella situazione di disagio sociale che seguì la prima guerra mondiale.

2. Il “biennio rosso”
Al termine della Grande guerra, mentre il partito socialista si stava rapidamente riorganizzando, nei primi mesi del 1919 si verificò una forte ripresa delle rivendicazioni operaie, causate sia dal calo dei salari reali verificatosi nel quinquennio 1914-18, sia dalla volontà di ottenere miglioramenti nelle condizioni di lavoro. L’Italia entrava nel periodo che è stato efficacemente definito “biennio rosso”, caratterizzato da una forte mobilitazione socialista e sindacale, nonché da frequenti manifestazioni di piazza, che assunsero un carattere preinsurrezionale con l’occupazione delle fabbriche del settembre 1920.
Il racconto del “biennio rosso” nel Senese è tanto avvincente e direi sconvolgente per la durezza che assunse e per la reazione che generò, quanto poco conosciuto.
Ve lo sintetizzo rapidamente, iniziando da una data simbolica.
Il 22 febbraio 1919 a Siena e provincia cominciò le pubblicazioni il battagliero “Bandiera Rossa Martinella”, settimanale della Federazione provinciale socialista senese. Vi leggo una citazione dall’editoriale del primo numero, in cui si affermava che il giornale era:
<<fatto da operai figli del popolo, che del popolo sanno i dolori e le aspirazioni, in quanto che vivono in mezzo ad esso e ad esso appartengono. Quindi né letterati né sfruttatori, né sapienti, né professionisti della penna... un giornale socialista! Prettamente socialista ed esclusivamente operaio>>.
Il cammino di emancipazione dal paternalismo borghese era definitivamente compiuto. Redattore capo del giornale, per tutto il tempo in cui durò la pubblicazione, cioè per tutto il “biennio rosso” fu un macchinista, che si chiamava Giuseppe Bernini.
Segretario della Camera del Lavoro fu eletto un altro ferroviere, Sesto Bisogni, con il compito di riordinare l’istituzione che usciva dal periodo di guerra in pessime condizioni finanziarie e amministrative. Bisogni iniziò un’assidua opera di organizzazione e in meno di tre mesi costituì ben 82 leghe di mestiere, con le quali fu avviata nelle campagne senesi una mobilitazione di massa senza precedenti.
Vi era inoltre un forte malcontento popolare dovuto alla crisi economica e sociale del dopoguerra, che non si esprimeva soltanto con la mobilitazione sindacale, ma anche con agitazioni spontanee di piazza.
Nel luglio 1919, per esempio, esplose la collera contro i commercianti e iniziarono saccheggi e devastazioni di negozi. I dirigenti della Camera del lavoro presero le distanze dall’agitazione e tentarono di recuperare la merce, accettando anche di ritirare le chiavi di quei negozi che avessero voluto affidarsi alla mediazione del sindacato, scrivendo all’ingresso: “Merce a disposizione della Camera del lavoro”.
Si cercò inoltre un accordo con le autorità cittadine: venne vietata dal prefetto l’esportazione fuori dalla provincia di alcuni generi di prima necessità e il Comune di Siena fu autorizzato a effettuare requisizioni anche oltre la sua giurisdizione, per evitare che i commercianti nascondessero la merce. Il Comune di Siena a collaborare nelle requisizioni dei prodotti alcune persone designate dalla Camera del lavoro che quindi aveva acquistato un potere notevole e sconosciuto in passato.
Sebbene alcune manifestazioni contro il rincaro dei prezzi si fossero già verificate durante l’“età giolittiana”, nel dopoguerra la massiccia partecipazione popolare e la retorica rivoluzionaria cominciavano a spaventare sempre di più tutti quei ceti borghesi che erano rimasti fuori da questa mobilitazione e che si sarebbero poi schierati con il fascismo egli anni seguenti.
Nella vicenda degli assalti ai negozi si cominciò anche a vedere come le autorità fossero poco propense ad accettare il potere che la Camera del lavoro aveva acquistato.
Il prefetto, per esempio, scriveva al Ministro dell’Interno con toni preoccupati che ben presto l’opera della Camera del lavoro, leggo la citazione:
<<tendeva ad emergere e a degenerare. Il personale della Camera montato sui camion per la requisizione faceva sfoggio di bracciali rossi (fioriti come per incanto) e su alcuni camion veniva inalberata la bandiera rossa>>.
Se i dirigenti socialisti della Camera del lavoro si accontentavano in pratica di trattare con le autorità statali e comunali, le parole e il comportamento dei militanti facevano in effetti temere il rovesciamento dell’ordine esistente. Del resto l’attesa della rivoluzione, sul modello della Russia, era assai diffusa tra gli operai. Questi – leggo ancora una citazione di un testimone dell’epoca –
<<sempre più numerosi frequentavano le riunioni che si tenevano (...) alla Casa del popolo... [dove]... non si faceva altro che parlare del popolo russo, il quale dopo tanti anni di schiavitù si era liberato dall’oppressione zarista, distruggendo per sempre il capitalismo>> (Umberto Coluccini).
Ma più che in città la mobilitazione cresceva nelle campagne. La Federazione nazionale lavoratori della terra assunse in provincia di Siena una rilevante importanza, divenendo tra le più forti d’Italia e la più numerosa in Toscana.

3. Le elezioni del 1919
Il 16 novembre 1919 si tennero in Italia le prime elezioni con il sistema a rappresentanza proporzionale, che è poi rimasto in vigore fino a pochi anni fa. Ora siamo invece tornati al maggioritario. Nel 1919 i vecchi collegi furono sostituiti da circoscrizioni elettorali molto più ampie: le province di Siena, Arezzo e Grosseto ne formavano una e avevano diritto all’elezione di 10 deputati.
I socialisti massimalisti, <<tutti appartenenti alla frazione più accesa e rivoluzionaria>> – scriveva il prefetto – dominavano ora il partito, dal quale erano si erano peraltro allontanati quegli intellettuali che ne avevano costituito la guida durante il primo decennio del secolo. Ora a dirigere il partito socialista e la Camera del lavoro vi erano – sempre citando il prefetto – <<persone di limitata cultura>>, la cui propaganda riusciva comunque <<efficacissima>>.
I due massimi esponenti del “biennio rosso” a Siena e provincia furono due “non Senesi” che, arrivati da poco in città, vi portarono le esperienze organizzative e politiche di centri maggiori e più industrializzati. Si trattava di Sesto Bisogni e Giulio Cavina.
Bisogni – come ho già detto – era un ferroviere e aveva prestato servizio per cinque anni a Genova. Cavina, invece, aveva lavorato in Germania e nel Biellese come scalpellino. Bisogni lasciò la carica di segretario della Camera del lavoro a Cavina, dedicandosi alla Federazione dei lavoratori della terra.
Entrambi furono candidati alle elezioni politiche del 1919, nelle quali il Psi riportò a Siena una vittoria schiacciante, ottenendo la maggioranza relativa con il 41% dei consensi. Nella circoscrizione elettorale furono conquistati cinque seggi, con l’elezione di Bisogni. Quest’ultimo ottenne oltre 71.000 consensi e dovette una parte importante della vittoria al sostegno proveniente dalla Federazione lavoratori della terra: a questo punto la maggioranza dell’elettorato socialista in provincia di Siena era infatti concentrato nelle campagne, dove sia i braccianti sia i mezzadri erano organizzati in forti leghe rosse, che avevano iniziato una battaglia senza precedenti contro i “padroni”.
Nel settembre 1919 venne inaugurata a Siena anche la sede dell’Unione del lavoro, il corrispondente cattolico della Camera del lavoro; e si accese una fiera rivalità tra le due organizzazioni, ma le leghe bianche non riuscirono mai a prendere campo tra i contadini della provincia, a differenza di quanto avveniva in altre zone della Toscana.
In seguito alle elezioni del novembre 1919, la lotta di classe si esasperò giorno dopo giorno, i toni polemici divennero aperti insulti, ma soprattutto si intensificarono gli incidenti tra operai e studenti nazionalisti.

4. Gli assalti alla casa del popolo e la scissione comunista
In questo quadro di lotta accesissima, il 7 marzo 1920, si verificò un’aggressione alla Casa del popolo di Siena, durante la quale perse la vita Enrico Lachi, un giovane ferroviere avventizio, iscritto al Fascio giovanile socialista. I fatti si svolsero durante un corteo dell’Associazione nazionale combattenti che passava davanti alla Casa del popolo: i combattenti si scontrarono con alcuni operai e i carabinieri furono coinvolti nei tafferugli, sparando alcuni colpi di arma da fuoco che uccisero il giovane Lachi. Da questo primo evento si vede evidente come le forze dello Stato si stessero schierando contro i lavoratori, che d’altra anche nei giornali non facevano altro che screditare i carabinieri e le altre forze di polizia.
Aumentavano intanto, per numero e intensità, gli scioperi nelle campagne. Nel luglio 1920, le agitazioni dei mezzadri culminarono nell’eccidio di Monterongriffoli, una frazione del comune di San Giovanni d’Asso dove i carabinieri uccisero tre lavoratori, durante una manifestazione davanti alla villa padronale del paese. Un fatto altrettanto grave si svolse in agosto ad Abbadia San Salvatore, in occasione dell’inaugurazione della bandiera della Lega fra mutilati e invalidi di guerra: in uno scontro tra socialisti, cattolici e carabinieri persero la vita sei persone, tra le quali un bambino.
Alla fine del settembre 1920 si tennero le elezioni amministrative per il consiglio provinciale di Siena: i socialisti conseguirono 32 seggi su 40, conquistando per la prima volta la provincia.
è suggestiva la descrizione della seduta iniziale del consiglio: i consiglieri della maggioranza si misero a gridare ripetutamente “viva il socialismo”, insieme al folto pubblico intervenuto a festeggiare quello che si riteneva un evento storico. Dopo essersi insediato al banco della presidenza, Sesto Bisogni vi depose un vessillo rosso tra le proteste della minoranza guidata dal liberale Gino Sarrocchi, che sarebbe poi stato ministro dei Lavori Pubblici nel primo governo Mussolini. In provincia di Siena furono conquistati ben 30 municipi su 36. Rimase però fuori il Comune di Siena, dove la vittoria andò agli avversari dei socialisti, riuniti in un “blocco” che comprendeva i liberali, i nazionalisti, i radicali e al quale si era aggregato anche il partito popolare, sconfessato persino dalla propria segreteria nazionale per il comportamento tenuto di alleanza con le forze conservatrici.

E arriviamo al gennaio 1921, per analizzare come fu vissuta a Siena la scissione comunista: durante l’adunanza degli iscritti alla sezione socialista, presso la Casa del popolo, Giulio Cavina, in qualità di segretario della Camera del lavoro, fece al vasto pubblico intervenuto un’ampia relazione su quanto era accaduto a Livorno, dove aveva partecipato al congresso, riferendo la sua personale versione dei fatti, cioè che la scissione comunista <<si sarebbe potuta evitare>> – cito il resoconto di “Bandiera Rossa Martinella” – se non ci fossero state <<le questioni degli uomini che personificavano le varie tendenze>>. Seguendo le indicazioni dello stesso Cavina che aveva un forte ascendente tra i lavoratori, venne riaffermata l’adesione incondizionata al Psi. L’uscita dei comunisti dal partito ebbe quindi all’inizio scarse ripercussioni: alle elezioni politiche del maggio 1921 il partito comunista riportò a Siena appena 109 voti; l’adesione fu però maggiore in val d’Elsa e in val di Chiana.

Intanto, l’insediamento in 30 comuni della provincia di giunte rosse, le quali avevano stabilito subito forti aumenti delle sovraimposte sui terreni, generò una decisa reazione degli agrari, che iniziarono a finanziare apertamente il movimento di Mussolini, presente anche a Siena fin dall’ottobre 1919, ma per oltre un anno relegato in posizione subalterna, data la grande difficoltà di affermarsi in una “provincia rossissima”, come la definì Giorgio Albero Chiurco, gerarca e storico del fascismo.
Le azioni squadriste in Toscana arrivarono al culmine alla fine del febbraio 1921 a Firenze e poi dilagarono in tutta la regione. Il primo marzo la città di Empoli era in sciopero, mentre passavano sui camion una quarantina di fuochisti della Marina Militare, che dovevano recarsi a Firenze per sostituire il personale ferroviario in sciopero. Durante il passaggio dei camion, si verificarono diversi scontri con lancio di pietre, di tegole e colpi d’arma da fuoco: si contarono nove morti, che sconvolsero l’opinione pubblica.
In seguito ai fatti Empoli, a Siena, la mattina del 4 marzo del ‘21, combattenti, fascisti, arditi e liberali si riunirono in corteo percorrendo le vie della città e facendo chiudere i negozi in segno di lutto. Un gruppo di fascisti, cantando “Giovinezza Giovinezza”, si diresse verso la Casa del popolo e poco dopo si sentirono dei colpi di rivoltella. Furono accusati con sdegno i socialisti, che negarono di aver sparato; in soccorso dei fascisti intervenne addirittura un reparto di fanteria con mitragliatrici e due cannoni da montagna, mentre gli stessi carabinieri partecipavano all’assalto per espugnare la costruzione dove si erano asserragliati numerosi lavoratori. Nel pomeriggio verso le 17, gli occupanti si arresero alla forza pubblica, ma furono percossi e arrestati. Giulio Cavina, particolarmente odiato per il suo estremismo, venne anche bastonato e fu scarcerato soltanto nel luglio successivo, grazie all’elezione alla Camera dei deputati. Fascisti e militari, penetrati all’interno dell’edificio, fracassarono i mobili e il patrimonio faticosamente accumulato nel corso degli anni, e vi appiccarono il fuoco.
Per il giorno successivo fu indetto uno sciopero generale in tutta la provincia, attuato con una partecipazione massiccia; in città, tuttavia, aderirono soltanto gli operai delle officine ferroviarie e di pochi altri opifici, mentre i negozi rimasero aperti, sintomo evidente che la reazione fascista, appoggiata dalle forze dell’ordine, cominciava a fare paura.

Il 9 marzo si svolse alla Camera dei deputati una lunga interrogazione sui fatti di Siena, durante la quale il sottosegretario per l’Interno Camillo Corradini ammise – cito le sue parole – che <<fa un grande effetto sentire che la Casa del popolo è stata presa a cannonate...; [e] che la forza ha fatto malissimo, perché doveva aprire la porta senza impiegare il cannone>>.
Dopo che Gino Sarrocchi ebbe difeso l’operato delle autorità e dei fascisti, Sesto Bisogni fece una completa e minuziosa relazione, mettendo in luce la complicità dei tutori dell’ordine e rilevando la barbarie degli assalitori che avevano picchiato gli arrestati. Bisogni terminò invitando il governo a restituire al più presto la Casa del popolo, posta sotto sequestro, ai suoi legittimi proprietari e a mettere in libertà gli innocenti.
Il 16 marzo si tenne nei locali della Casa del popolo di Poggibonsi, la più vicina disponibile, un congresso generale delle leghe operaie senesi, per decidere il versamento di una giornata di lavoro da parte di ogni organizzato al fine di riparare i danni arrecati dall’incendio all’edificio del proletariato. Per sostenere gli arrestati e le famiglie venne deliberata una sottoscrizione volontaria.
Nelle settimane seguenti gli attacchi del fascismo si moltiplicarono e la violenza cominciò a spaventare tutti: nel numero di “Bandiera Rossa Martinella” del 2 aprile 1921, Emma Meini, moglie del tipografo Carlo Meini arrestato durante l’assalto alla Casa del Popolo, comunicava che non avrebbe più pubblicato il giornale, a causa delle intimidazioni ricevute, costringendo la redazione a trovare un altro stampatore.

5. La violenza “squdrista”
In provincia molte amministrazioni comunali si dimisero sotto la minaccia squadrista: il 9 giugno 1921, la sezione fascista senese chiedeva l’invio di commissari prefettizi nei comuni di Pienza, Chiusi, Sarteano, Montalcino e Buonconvento, poiché le amministrazioni socialiste avevano rassegnato le dimissioni.
In questo clima, il 15 maggio si erano svolte le elezioni politiche. Per Siena fu riconfermato Sesto Bisogni e fu inoltre eletto Giulio Cavina che così uscì dal carcere. Nel Comune di Siena il Psi raggiunse il 47,8% dei consensi, contro il 41,3% ottenuto alle politiche del 1919.
Buona parte della cittadinanza moderata, ormai intimorita dalle violenze e dagli abusi, ben superiori a quelli in precedenza commessi dai socialisti massimalisti, pur non osando opporsi apertamente, nel segreto delle urne esprimeva il suo dissenso contro l’estremismo dei fascisti e dei loro alleati.
A metà del 1921 la situazione nel Senese era ormai degenerata. Il 28 maggio era stata fondata una Camera del lavoro italiana, emanazione dei fasci di combattimento nel campo dell’organizzazione sindacale. Il 9 settembre il giornale “Bandiera Rossa Martinella”, che ormai usciva saltuariamente, riportava la cronaca di una lunghissima serie di azioni fasciste compiute in provincia, e poi cessava definitivamente le pubblicazioni. Eravamo oltre un anno prima della “marcia su Roma”.
Sesto Bisogni, la cui abitazione era continuamente sorvegliata dalle guardie regie per evitare aggressioni, scriveva il 13 gennaio 1922 un accorato appello al prefetto, in cui affermava – cito le sue parole – che
<<i regi carabinieri e i comandanti stessi grandi e piccoli hanno dimostrato di avere perduta completamente la testa e di veramente sentire solo l’ordine del mandante privato e non gli ordini dell’autorità del governo e del suo primo rappresentante sig. prefetto>>.
Un ispettore generale di pubblica sicurezza, inviato dal ministero dell’Interno ad osservare la situazione in provincia, comunicava nel suo rapporto del 17 marzo 1922 che l’opera del prefetto era <<assidua e costante>>, ma si scontrava con la mancanza di uomini a disposizione della questura. Sull’operato dei carabinieri l’ispettore ammetteva – cito ancora le sue parole – <<che l’azione dell’Arma in genere, osservata con occhio spassionato, non appare così completamente equilibrata ed imparziale come sarebbe da augurarsi>>. Veniva inoltre messa in luce la connivenza della magistratura che aveva <<a Siena bisogno di mostrare un’attività più efficace e più energica>>, e si escludeva <<in modo reciso che quel procuratore del Re sia il meglio indicato per un tale compito>>.
Un mese dopo, il deputato socialista Fabrizio Maffi fu aggredito durante lo svolgimento di un convegno provinciale presso la Casa del popolo che, nonostante fosse continuamente sorvegliata da guardie regie, nell’occasione fu assediata dai fascisti i quali, arrampicandosi sul muro esterno, issarono la bandiera tricolore sull’edificio.
La situazione era ancora peggiore nelle campagne, come lamentava Bisogni alla Camera dei deputati il 10 maggio 1922. Vi leggo le sue parole, riportate negli Atti Parlamentari:
<<è ormai cosa di tutti i giorni la cronaca delle violenze che avvengono in provincia di Siena... Da 15 o 16 mesi, in quella provincia, siamo messi a ferro e fuoco da paese a paese, e di morti ce ne sono tre a Chiusi, due a San Gimignano, uno a Montepulciano, altri a Poggibonsi ecc. Da tutte le parti morti appartenenti alle classi operaie... e gli arrestati pure sono tutti di parte operaia. Dalla parte dei signori, o dei signori servi degli agrari... nemmeno un arresto... Quella provincia, che all’estero e dovunque rappresenta quasi l’anima gentile e il linguaggio d’Italia, le più eccelse tradizioni gelosamente custodite, oggi vive la vita della Vandea>>.
Con le sue parole Bisogni si guadagnò dure minacce da parte dei fascisti, che alla denuncia della violenta realtà senese risposero sul loro giornale, che si chiamava “La Scure”. Vi leggo anche questa citazione:
<<Lo scalpellino Cavina e il frenatore Bisogni han promesso in Parlamento di voler dirigere la rivolta nella nostra città ed hanno osato calunniare la tradizionale gentilezza delle nostre popolazioni, con frasi da gente di suburra, quali essi si sono dimostrati. Fascisti! Noi dobbiamo raccogliere la sfida e in questo maggio il raglio dei due onorevoli asini, deve essere accompagnato dalla musica suadente dei nostri manganelli>>.
Allo “sciopero legalitario” dell’agosto 1922, indetto
dall’Alleanza del lavoro per protestare contro le violenze, parteciparono a Siena città soltanto sei ferrovieri del personale di macchina, e i fascisti li avvisarono minacciosamente dalle pagine del giornale “La Scure”: <<abbiamo preso nota del loro incauto gesto e li consigliamo, per il loro bene a non ripeterlo>>. Tutti gli altri si presentarono regolarmente a lavoro, – continuava “La Scure” –<<anche i capi, i famosi capi dell’armata rossa che pur avevano in tasca l’ordine tassativo della diserzione impartito dai famosi comitati rivoluzionari>>.
E arriviamo alla “marcia su Roma” dell’ottobre 1922. Dopo essersi riforniti di armi nella fortezza di Santa Barbara senza incontrare alcuna resistenza, nella notte tra il 27 e il 28 ottobre, circa 2.000 fascisti senesi partirono per la “marcia su Roma” con una tradotta ferroviaria. Ad Asciano, Sinalunga e Chiusi salirono numerosi altri uomini dei paesi della provincia. Tra questi le squadre dei temuti fasci dell’Amiata, ai quali Chiurco aveva ordinato di concentrarsi nelle stazioni della linea.
La Casa del popolo senese pochi giorni dopo fu nuovamente occupata e venne inalberata nella terrazza la bandiera tricolore. Restaurata in pochi mesi, dall’aprile 1923 divenne proprietà dei fascisti che si erano iscritti in massa acquistando così la maggioranza, e fu poi adibita a sede del Fascio, dove si dovevano educare le classi più umili – vi leggo ancora una citazione dal giornale fascista –
<<mediante buone letture e conferenze, alla concezione del dovere e dell’onesta, allontanandole da tutto ciò che può costituire incitamento all’ozio e al vizio, impedendo assolutamente che le sue sale diventino un ritrovo di falsi pastori del proletariato>>.
Si chiudeva così, temporaneamente, la parabola delle organizzazioni socialiste e sindacali nel Senese, sorte all’interno delle istituzioni dello Stato liberale e tramontate con queste, senza che mai vi si fossero identificate. Il radicalismo e il socialismo di matrice mazziniana e cittadina dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento avevano ottenuto importanti successi elettorali, ma con l’allargamento del suffragio erano stati progressivamente soppiantati dall’elettorato massimalista delle campagne, duramente ricacciato indietro mediante la forza in una competizione che nel dopoguerra assunse presto la fisionomia di una lotta agraria spietata senza precedenti e senza esclusione di colpi. Tale base di massa verrà però recuperata dai comunisti con la seconda guerra mondiale e con la resistenza.


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