Testimonianze - Contadini e padroni dal 1943 al 1945 di Dino Vannini


Durante la guerra conducevo a mezzadria un podere in parrocchia di Presiola. Anche se non abbiamo mai sofferto la fame le nostre condizioni economiche e il nostro stato (eravamo undici in famiglia) erano comunque miserevoli: dormivano 5 o 6 per stanza e la casa era in pessimo stato. Un inverno, ad esempio, crollò il tetto e il padrone mandò i muratori solo a primavera. Noi contadini non avevamo assistenza e se qualcuno degli uomini validi s'infortunava o se dovevamo affrontare spese impreviste, eravamo costretti a ricorrere a prestiti presso il padrone o da usurai che praticavano dei tassi esorbitanti dato che per noi contadini era molto difficile ottenere prestiti dalle banche. 
I padroni in genere non pretendevano alti interessi sui prestiti ai contadini, ma con questo mezzo li tenevano sempre in pugno, essendo difficoltoso estinguere il debito e in caso di abbandono del podere i contadini se ne anda­vano via portando con sé solo la gabana d'era adoss. Gli interessi e gli affari del padrone erano curati quasi sempre dal fattore: era con questo che il contadino doveva trattare quando settimanalmente veniva a controllare il lavoro, la divisione del raccolto, la cura delle bestie. Una volta l'anno, il fattore chiamava i capifamiglia per fare i conti, che dovevamo accettare per buoni in quanto molti di noi (compreso mio padre) erano analfabeti e in paese non c'erano associazioni a cui rivolgerci per un aiuto in quanto tutti gli organismi erano controllati dai fascisti e quindi dai padroni. 

D'altra parte i nostri vecchi erano anche, condizionati da una mentalità di com­pleta sottomissione che li portava a fidarsi ciecamente del padrone per il solo fatto che egli era il padrone. 
A lui venivano regalati i polli più belli, così come al fattore ed ogni anno c'era la gara tra i vari mezzadri a chi trebbiava di più con tutto il vantaggio che derivava al padrone dal fatto che tutto il grano veniva trebbiato e passava quindi sotto il controllo del fattore, e i contadini si impegnavano al limite del possibile nel lavoro e soprattutto veniva alimentata la divisione tra mezzadri e mezzadri. Quando una bestia veniva portata al mercato per la vendita, il contadino restava a sorvegliarla mentre il fattore andava a contrattarla e avvertiva il contadino della vendita a cose fatte senza che questi potesse opporsi se riteneva il rica­vato troppo basso. 
Questa situazione si protrasse fino all'inizio del 1944, poi col formarsi dei primi nuclei partigiani il fattore diradò le visite. 
Nelle rare volte che lo vedevamo ci diceva: «Ci sono i lupi al bosco» e concludeva amareggiato «vogliono tutto loro, prendono tutta la parte del padrone». 

Da metà agosto del 1944 quando la 36a Brigata si trasferì nella nostra zona, le visite del fattore si fecero ancora più rare e la parte del padrone, che negli anni passati gli portavamo a casa, rimase presso di noi. I partigiani e in particolare il commissario Olivieri riunivano spesso noi contadini sollecitandoci ad unirci contro i padroni, ad abolire le regalie, a richiedere nuovi patti colonici più favorevoli per noi. Fu quasi naturale per noi contadini aderire quindi alla lotta partigiana nei suoi variati aspetti: io ed altri contadini di Presiola   ad esempio - eravamo inquadrati nella 36a, ma quando era possibile lavoravamo nei campi (generalmente di notte), pronti ad avvertire i compagni in caso di pericolo o ad accorrere per fronteggiare un attacco nemico. 
I partigiani prelevavano quasi sempre la sola parte del padrone rilasciandoci dei buoni che dovevamo presentare al fattore quando si facevano i conti. 
Accadde che - per bisogno - venisse prelevata una parte delle nostre disponibilità, ma in questo caso ci vennero pagate ad un prezzo superiore a quello del mercato perché - dicevano - il padrone aveva altre risorse, noi nò. 
 Il fattore accettava poi i buoni senza discutere, seppur contrariato, e non si dilungava sulla divisione del raccolto, rimandando alla fine della guerra la definizione delle pendenze: sapeva che in caso di contrasti ci rivolgevamo ai partigiani. 

Finalmente anche per noi contadini sembrava giunto il momento di una maggior dignità e di maggior rispetto da parte dei padroni. Nel 1944, pur essendo ancora in vigore i vecchi patti colonici, non ci furono regalie per i padroni e per i loro fattori. 
La questione delle regalie aveva assunto una certa importanza perché più che un peso economico rappresentavano un insopportabile atto di sottomissione sociale: nel corso dell'anno - ed in determinate festività - i contadini portavano al padrone otto capponi, otto pollastre, sei cappe d'uova così che fosse ben chiaro chi era il padrone e per evitare che il contadino lo dimenticasse. Alla fine dell'estate si realizzò anche un certo risveglio ed un certo interesse dei giovani contadini verso i problemi politici, economici e sociali in conseguenza dell'intenso lavoro di propaganda svolto dai commissari partigiani. 
Dopo l'arrivo degli alleati il fattore riprese a farci visita più spesso, quasi come prima della guerra, ma con modi e parole ben diversi: non era ancora ben chiaro come si sarebbero sviluppati i nostri futuri rapporti anche se si erano verificati alcuni inquietanti segni di una inversione e di un ritorno alla situazione prebellica in seguito alle decisioni del Comando Alleato.

Per tutto il 1945, pur essendo ancora in vigore i vecchi patti, il raccolto ven­ne ancora diviso a metà, ma di regalie non se ne parlò in virtù anche dell'intensa campagna realizzata dalle nostre associazioni per tradurre in pratica gli intendimenti e i progetti realizzati nel corso della lotta partigiana. 
Nel 1946 i padroni ripresero a pretendere le regalie, specialmente con la stipulazione di nuovi contratti, così da creare una situazione di ambiguità e anche contrasti tra gli stessi mezzadri: in alcune parrocchie le regalie venivano soddisfatte mentre in altre, come a Mongardino dove l'associazione sindacale era più forte e dove si era verificata una vasta e profonda lotta partigiana, non venivano date per niente ai padroni.