Durante la
guerra conducevo a mezzadria un podere in parrocchia di Presiola. Anche se non
abbiamo mai sofferto la fame le nostre condizioni economiche e il nostro stato
(eravamo undici in famiglia) erano comunque miserevoli: dormivano 5 o 6 per
stanza e la casa era in pessimo stato. Un inverno, ad esempio, crollò il tetto e
il padrone mandò i muratori solo a primavera. Noi contadini non avevamo
assistenza e se qualcuno degli uomini validi s'infortunava o se dovevamo
affrontare spese impreviste, eravamo costretti a ricorrere a prestiti presso il
padrone o da usurai che praticavano dei tassi esorbitanti dato che per noi
contadini era molto difficile ottenere prestiti dalle banche.
I padroni in
genere non pretendevano alti interessi sui prestiti ai contadini, ma con questo
mezzo li tenevano sempre in pugno, essendo difficoltoso estinguere il debito e
in caso di abbandono del podere i contadini se ne andavano via portando con sé
solo la gabana d'era adoss. Gli interessi e gli affari del padrone erano
curati quasi sempre dal fattore: era con questo che il contadino doveva trattare
quando settimanalmente veniva a controllare il lavoro, la divisione del
raccolto, la cura delle bestie. Una volta l'anno, il fattore chiamava i
capifamiglia per fare i conti, che dovevamo accettare per buoni in quanto molti
di noi (compreso mio padre) erano analfabeti e in paese non c'erano associazioni
a cui rivolgerci per un aiuto in quanto tutti gli organismi erano controllati
dai fascisti e quindi dai padroni.
D'altra parte i nostri vecchi erano anche,
condizionati da una mentalità di completa sottomissione che li portava a
fidarsi ciecamente del padrone per il solo fatto che egli era il padrone.
A lui
venivano regalati i polli più belli, così come al fattore ed ogni anno c'era la
gara tra i vari mezzadri a chi trebbiava di più con tutto il vantaggio che
derivava al padrone dal fatto che tutto il grano veniva trebbiato e passava
quindi sotto il controllo del fattore, e i contadini si impegnavano al limite
del possibile nel lavoro e soprattutto veniva alimentata la divisione tra
mezzadri e mezzadri. Quando una bestia veniva portata al mercato per la vendita,
il contadino restava a sorvegliarla mentre il fattore andava a contrattarla e
avvertiva il contadino della vendita a cose fatte senza che questi potesse
opporsi se riteneva il ricavato troppo basso.
Questa situazione si protrasse
fino all'inizio del 1944, poi col formarsi dei primi nuclei partigiani il
fattore diradò le visite.
Nelle rare volte che lo vedevamo ci diceva: «Ci sono i
lupi al bosco» e concludeva amareggiato «vogliono tutto loro, prendono tutta la
parte del padrone».
Da metà agosto del 1944 quando la 36a Brigata si trasferì
nella nostra zona, le visite del fattore si fecero ancora più rare e la parte
del padrone, che negli anni passati gli portavamo a casa, rimase presso di noi.
I partigiani e in particolare il commissario Olivieri riunivano spesso
noi contadini sollecitandoci ad unirci contro i padroni, ad abolire le regalie,
a richiedere nuovi patti colonici più favorevoli per noi. Fu quasi naturale per
noi contadini aderire quindi alla lotta partigiana nei suoi variati aspetti: io
ed altri contadini di Presiola ad esempio - eravamo inquadrati nella 36a, ma
quando era possibile lavoravamo nei campi (generalmente di notte), pronti ad
avvertire i compagni in caso di pericolo o ad accorrere per fronteggiare un
attacco nemico.
I partigiani prelevavano quasi sempre la sola parte del padrone
rilasciandoci dei buoni che dovevamo presentare al fattore quando si facevano i
conti.
Accadde che - per bisogno - venisse prelevata una parte delle nostre
disponibilità, ma in questo caso ci vennero pagate ad un prezzo superiore a
quello del mercato perché - dicevano - il padrone aveva altre risorse, noi nò.
Il fattore accettava poi i buoni senza discutere, seppur contrariato, e non si
dilungava sulla divisione del raccolto, rimandando alla fine della guerra la
definizione delle pendenze: sapeva che in caso di contrasti ci rivolgevamo ai
partigiani.
Finalmente anche per noi contadini sembrava giunto il momento di una
maggior dignità e di maggior rispetto da parte dei padroni. Nel 1944, pur
essendo ancora in vigore i vecchi patti colonici, non ci furono regalie per i
padroni e per i loro fattori.
La questione delle regalie aveva assunto una certa
importanza perché più che un peso economico rappresentavano un insopportabile
atto di sottomissione sociale: nel corso dell'anno - ed in determinate festività
- i contadini portavano al padrone otto capponi, otto pollastre, sei cappe
d'uova così che fosse ben chiaro chi era il padrone e per evitare che il
contadino lo dimenticasse. Alla fine dell'estate si realizzò anche un certo
risveglio ed un certo interesse dei giovani contadini verso i problemi politici,
economici e sociali in conseguenza dell'intenso lavoro di propaganda svolto dai
commissari partigiani.
Dopo l'arrivo degli alleati il fattore riprese a farci
visita più spesso, quasi come prima della guerra, ma con modi e parole ben
diversi: non era ancora ben chiaro come si sarebbero sviluppati i nostri futuri
rapporti anche se si erano verificati alcuni inquietanti segni di una inversione
e di un ritorno alla situazione prebellica in seguito alle decisioni del Comando
Alleato.
Per tutto il 1945, pur essendo ancora in vigore i vecchi patti, il
raccolto venne ancora diviso a metà, ma di regalie non se ne parlò in virtù
anche dell'intensa campagna realizzata dalle nostre associazioni per tradurre in
pratica gli intendimenti e i progetti realizzati nel corso della lotta
partigiana.
Nel 1946 i padroni ripresero a pretendere le regalie, specialmente
con la stipulazione di nuovi contratti, così da creare una situazione di
ambiguità e anche contrasti tra gli stessi mezzadri: in alcune parrocchie le
regalie venivano soddisfatte mentre in altre, come a Mongardino dove
l'associazione sindacale era più forte e dove si era verificata una vasta e
profonda lotta partigiana, non venivano date per niente ai padroni.