L'armistizio dell'8 settembre 1943 mi colse sotto le armi
e come tanti abbandonai armi e reparto e feci ritorno a casa, a Ca' Bartoli,
vicino al paese. Ripresi il lavoro dei campi e mi disinteressai dei grandi
mutamenti politici di quei giorni e di quelli che seguirono.
Quando la mia
classe fu richiamata chiesi consiglio ai miei vecchi sulla strada da prendere,
ma essi risposero che la scelta spettava a me, che il pericolo c'era sia a
partire come a restare. Restai, a causa anche della precedente esperienza
militare che mi aveva lasciato una profonda avversione per la guerra e per
l'esercito. Per tutto l'inverno restai tranquillo a casa, essendo assegnato al
servizio sedentario.
Ricevetti alcuni inviti ad aderire alla GNR, ma rifiutai
sia perché erano stati i fascisti a volere la guerra e a volerla continuare
ora, ma anche perché ero cresciuto in una famiglia di sentimenti antifascisti.
A primavera la mia posizione divenne insostenibile: o arruolarmi o darmi alla
macchia. All'osteria dissi che sarei partito per arruolarmi e quindi mi nascosi
in casa da cui uscivo solo la notte.
Dopo un breve periodo di vita clandestina
venni avvertito da un repubblichino (che era in contatto con i partigiani) che
ero stato scoperto e che i capi della GNR locale potevano catturarmi da un
momento all'altro.
La notte, con i soli vestiti che indossavo, mi trasferii
alle Banzuole di Baffadi dove mi accolsero di buon grado benché conoscessero la
mia posizione di disertore.
Per sdebitarmi della ospitalità lavoravo nei campi
e fu proprio mentre ero intento a mietere che venni avvicinato da due partigiani.
Saputo che ero renitente mi prospettarono i pericoli che correvo restando in
quella casa e la minaccia di rappresaglia verso la famiglia che mi ospitava.
Quando mi salutarono mi avvertirono che se sceglievo la vita partigiana avrei
potuto aggregarmi ad un gruppo di giovani casolani che a distanza di pochi
giorni sarebbe salito in montagna. Ci pensai e decisi di partire: a Valdifusa
mi aggregai ai casolani e, guidati da un paio di partigiani, raggiungemmo
Sfirolo dove ci fecero sostare in attesa di qualcuno.
Poco prima di mezzanotte
giunse un gruppetto di persone, tra cui Angelo Morini di Riolo Bagni che ci
tenne un breve discorso. Ci incitò a lottare contro i tedeschi e i fascisti; ci
esortò a lottare per un futuro migliore senza la oppressione fascista; ci
chiari insomma i motivi politici ed ideali della nostra scelta che dentro di
noi erano ancora amalgamati con motivi pratici ed utilitaristici.
Riprendemmo
poi il cammino per il Monte Carzolano dove si trovava la zona presidiata dalla
36a Brigata «Garibaldi». Durante il lungo e faticoso trasferimento ebbi modo di
ripensare con calma alle parole di Morini e il trovare dei validi motivi per
una scelta tanto difficile e sofferta, poter vedere lo sbocco di una vita
migliore al termine della dura lotta che ci aspettava in montagna mi rinfrancò
e fece svanire la maggior parte delle apprensioni che mi avevano tormentato
negli ultimi tempi.
Il comando partigiano della 36a mi assegnò alla compagnia
di Amato dove, dopo avermi scherzosamente affibbiato il nome di Tarzan per la
mia bassa statura, venni incaricato di accudire ai cavalli.
Mi impegnai nel
nuovo compito al limite delle mie possibilità così da evitare le missioni di
guerra: l'esperienza militare mi aveva insegnato di non essere fatto per i
combattimenti. Amato, che, come tutti i comandanti partigiani, conosceva e
capiva i suoi uomini, si accorse della mia paura e mi tranquillizzò
assicurandomi che si combatteva anche accudendo i cavalli e che l'aver scelto
la lotta partigiana era già un grande atto di coraggio. In fondo però invidiavo
il coraggio e la capacità dei compagni che colpivano i nemici persino nelle
città con azioni rapide ed incisive, ma era più forte di me il desiderio di
restarmene alla base.
Non si era però completamente sicuro neanche nella zona
della 36a tanto che un paio di volte sfuggii miracolosamente al tiro nemico
mentre portavo i cavalli ad abbeverare con l'unica difesa di un vecchio fucile
«91».
In montagna ebbi modo di fare preziose esperienze di vita sociale e
politica. Durante le ore di riposo o mentre pulivamo le armi si accendevano
discussioni politiche dato che vi erano partigiani di tutti i partiti, anche se
i comunisti erano la maggioranza.
Quando veniva però il momento di combattere
lottavano fianco a fianco l'uno per l'altro e a volte morivano per il compagno
col quale avevano tanto polemizzato. Il rifiuto e il superamento di abitudini
derivate dal fascismo e dalle precedenti esperienze di vita militare erano
favoriti dal vivere con persone che non avevano conosciuto il primo e avevano
ben altre tradizioni militari.
Ricordo che con noi erano tre russi i quali se
prendevano il rancio per primi si limitavano scrupolosamente a prendere la loro
parte, mentre c'era anche chi provava a prenderne di più a scapito degli altri
e i russi gli chiedevano: «Perché?».
Dopo una iniziale partecipazione alle «ore
di politica» ottenni da Amato il permesso di non continuare perché troppo
teoriche per me, anche se Amato mi disse che era dovere di ogni cittadino farsi
una coscienza politica, ma poi mi spiegò che le «ore» servivano soprattutto per
formare i futuri quadri politici e sindacali.
Il giorno più importante della
mia esperienza di lotta partigiana fu il 10 ottobre 1944 quando partendo in 70
da Ca' di Malanca muovemmo all'attacco dei tedeschi per congiungerci agli
alleati.
Amato aveva chiesto dei volontari per questa azione concertata insieme
agli uomini di Pirì e io avevo alzato la mano.
Il mio comandante si meravigliò
e gli dovetti spiegare che la mia decisione dipendeva dalla disperazione:
erano diversi giorni che eravamo sotto la pioggia ancora con i vestiti
dell'estate, pieni di pidocchi, con un mangiare scarso e discontinuo e
soprattutto nessuno sapeva se era più pericoloso andare o restare.
Fu subito
chiaro che non basta la volontà di combattere; ci vuole la pratica delle armi e
l'esperienza soprattutto nei combattimenti ravvicinati che si accendevano nelle
macchie e negli anfratti attorno a Ca' di Malanca. Le urla di incitamento, i
lamenti dei feriti, il rumore degli spari e il sibilo delle pallottole mi
impedivano di muovermi: accovacciato dietro un masso, con il mio vecchio fucile
tra le braccia, stavo in attesa di un qualcosa che potesse scuotermi.
Pochi
metri più in là vidi Boci alzarsi contemporaneamente a tre tedeschi e falciarli
con una unica lunga raffica. Pensai che al suo posto sarei stato sicuramente
ucciso. Ma non potevo continuare ad aspettare che un tedesco potesse scoprirmi
ed uccidermi in tutta tranquillità così che mi alzai di scatto per combattere
anch'io.
La prima cosa che vidi fu la canna di un fucile che un tedesco mi
puntava contro: mi lasciai cadere sulle ginocchia e nello stesso attimo pensai
che non avrei più visto i miei e sentii il sibilo caldo della pallottola
sfiorarmi la testa.
Mi lanciai a corpo morto lungo la scarpata inseguito a non
più di un paio di metri dal tiro di una mitragliatrice tedesca fino a
raggiungere una posizione riparata. Dopo circa due ore dall'inizio dei
combattimenti, Bob diede l'ordine di ritirarci per far posto a forze fresche.
In quella occasione ebbi modo di vedere e di ammirare il coraggio del
comandante della Brigata che da una altura, senza coprirsi, sparava sui
tedeschi per proteggere il nostro arretramento: il rispetto e l'ammirazione che
noi tutti avevamo per Bob erano ben meritati. Quando fummo al sicuro mi sedetti
contro un castagno per farmi una sigaretta.
Stavo pensando a quante volte avevo
rischiato la pelle quando avvertii una sferzata nel fianco; pensai: «Una
scheggia - e di seguito - guarda come è facile morire» e quindi persi i sensi.
Mi svegliai accanto al pagliaio di Ca' di Malanca a causa del dolore che mi
provocavano alcuni compagni nell'esaminarmi la ferita.
Non essendoci medici si
limitarono a fasciarmi strettamente e a trasportarmi a braccia in una casa
vicina dove i contadini si dissero disposti ad ospitarmi insieme ad un
partigiano di Riolo Bagni rimasto per assistermi. Verso sera passò un
commissario partigiano che ci lasciò 3.000 lire per i nostri bisogni: erano i
primi soldi che vedevo da quando mi ero fatto partigiano. Il mattino successivo
stavo già meglio anche se ero molto debole per il sangue perduto.
La scheggia
che mi aveva colpito era penetrata solo superficialmente e non mi procurava
grossi fastidi (tanto che oggi è ancora lì). Sorretto dal mio compagno, che nel
corso della notte mi aveva fasciato di nuovo e mi aveva ceduto la sua maglia
essendo la mia insanguinata e a brandelli, ci mettemmo in cammino per
allontanarci dal terreno dei combattimenti: restare avrebbe significato una
morte sicura. Alla prima casa dove bussammo per chiedere alloggio ci aprì una
donna che conoscevo, ma quando anche lei ci riconobbe come partigiani richiuse
violentemente la porta.
Il mio compagno ebbe un moto di rabbia ma io
giustificai la donna con il terrore delle rappresaglie nazifasciste e poi non
eravamo più nelle condizioni di dettare legge nelle campagne: la popolazione
contadina era rimasta alla mercè delle truppe tedesche in ritirata che non
risparmiavano niente e nessuno.
Riprendemmo la strada verso Casola e a metà
giornata incontrammo Genoveffa Morini, una staffetta partigiana, la quale
rintracciò mio fratello e con lui raggiungemmo la Fabbrica dove il dott.
Spada mi fece la prima vera medicazione. Lasciata la Fabbrica il partigiano di
Riolo, dopo esserci divisi i soldi rimasti, mi lasciò affidandomi a mio
fratello.
Rimasi nascosto una decina di giorni nel fienile di Castagnardizzo da
dove mi prelevarono una mia cugina e un ex fascista di Casola che aiutava i
feriti i quali mi sistemarono in un rifugio ricavato in una scarpata nei pressi
di Ca' Bartoli in attesa di rimettermi in forze. Erano un paio di giorni che me
ne stavo rintanato ricevendo solo la visita dei parenti che mi portavano da
mangiare, quando udii distintamente delle voci tedesche; la cosa non mi preoccupò
sia perché era abbastanza frequente sia perché l'entrata del mio rifugio era
stata occultata con molta cura.
Sfortunata-mente le artiglierie alleate
scatenarono proprio in quel momento un furioso bombardamento e tre o quattro
tedeschi, per ripararsi, penetrarono per caso dentro il mio rifugio. La loro
sorpresa superò certo la mia, ma ero io nelle condizioni peggiori: ferito e
senza armi alla mercè di tedeschi in ritirata. Tra le molte parole riuscii a
capire: «Tu partigiano ferito».
Con gesti e con parole riuscii a far loro
capire che ero stato costretto dai tedeschi a trasportare armi verso Monte
Battaglia e qui ero rimasto ferito; ci pensarono un attimo poi salutando-mi con
«Tu buono camerata» se ne andarono.
Rimasto solo mi accorsi che mi ero pisciato
addosso dalla paura. Rimessomi in forze mi spostai a Ca' Bartoli dove ero
costretto a nascondermi per il continuo passaggio di truppe tedesche verso i
Gessi. Una notte due tedeschi giovanissimi penetrarono nella stalla mentre
dormivano e dopo aver saputo la posizione delle truppe inglesi ci chiesero di
seppellire le loro armi e si avviarono verso le linee alleate. Un altro giorno
una pattuglia tedesca nascose armi ed equipaggiamento sotto la paglia della
nostra stalla. Due giorni dopo vennero due tedeschi conducendo due civili e con
la minaccia delle armi ci costrinsero a portare le armi abbandonate fino a
Montebattagliola.
Qui facemmo una sosta; i tedeschi telefonarono al loro
comando e quindi ci ordinarono di proseguire verso le loro retrovie. Prima di
riprendere il cammino approfittai di un attimo di disattenzione dei nostri
sorveglianti e del buio della notte per lasciarmi cadere lungo una scarpata e
quindi me ne tornai a casa dove rimasi fino all'arrivo degli alleati.