Un giorno, all'inizio del 1944,
venni avvicinato da partigiani imolesi che avevano costituito i primi nuclei
combattenti presso la
Faggiola. Mi proposero di collaborare con loro dopo che
avevano saputo della mia attività antifascista nel 1943 quando distribuivo
nelle case contadine di Valsenio le copie dell'Unità stampate clandestinamente
all'Università di Bologna e portate a Casola da Amilcare Mattioli e Filippo
Pirazzoli.
Una volta accettato mi affidarono il compito di reperire armi, prendere
contatto con giovani alla macchia per indirizzarli verso le formazioni
partigiane, raccogliere informazioni sui movimenti dei fascisti e dei tedeschi.
Si rivelò subito un impegno rischioso anche se la perdita di una gamba
scivolata negli ingranaggi di una trebbiatrice quando avevo 18 anni mi
preservava da controlli e dalla opprimente sorveglianza dei repubblichini che
a volte, mentre giocavamo a carte, si lasciavano scappare preziose
informazioni. Spesso alla fatica e al rischio seguivano risultati deludenti.
Ricordo che una vecchietta mi avverti di aver gettato la rivoltella di suo
figlio nel pozzo in seguito al proclama tedesco che minacciava di morte tutti
coloro che venivano trovati in possesso di armi; per recuperarla dovetti fare
incredibili acrobazie e quando risalii mi accorsi che era un «pistolotto»
neanche buono per sparare alle galline.
I contatti con le pattuglie della 36a
Brigata avvenivano in genere nella macchia vicino a casa dove avevamo
appuntamento per dare conto del lavoro svolto e ricevere eventuali nuovi
ordini.
Se c'era necessità di inviare informazioni urgenti al comando mi
servivo di contadini organizzati in una SAP e in GAP e dipendenti militarmente
dalla 28a Brigata, ma con frequenti contatti anche con la 36a In verità nessuno
conosceva la linea di delimitazione delle zone di influenza delle due brigate
partigiane che operavano nel territorio di Casola: gappisti e sappisti
ricevevano direttive sia dall'uno che dall'altro comando; molti non sapevano
neppure in quale brigata fossero inquadrati.
Questa situazione se da una parte
costituì un ostacolo per un organico coordinamento delle attività partigiane
dall'altra favorì una lotta unitaria al di sopra delle rivalità e delle differenti
valutazioni tattiche del CLN di Ravenna da cui dipendeva la 28a Brigata «M.
Gordini» e di Bologna a cui faceva capo la 36a. Io stesso accompagnai Gigi
Pirazzoli ad alcune riunioni ai Crivellari di Borgo Rivola dove Angelo Morini
impartiva le direttive politiche e militari ai GAP e ai SAP della 28a e ricordo
di avervi trovato uomini che operavano per conto della 36a.
La delicatezza e
l'importanza del compito di tenere i contatti tra le forze partigiane e la
popolazione contadina mi costrinse a scontrarmi, anche in modo aspro, con
pattuglie partigiane inviate ad eliminare spie o fascisti.
Noi staffette
chiedevamo di essere informate preventivamente delle decisioni prese dal
comando in quanto conoscevamo gli individui sospettati e avremmo potuto
intervenire di conseguenza, ma soprattutto perché saremmo stati i primi a
pagare le conseguenze di azioni avventate che avrebbero creato incomprensioni e
contrasti tra contadini e partigiani.
Un giorno seppi che un mio vicino,
milite della GNR di Casola, era stato prelevato da una pattuglia partigiana per
essere fucilato. Mi precipitai e li rintracciai mentre gli stavano dando da
bere un ultimo bicchiere di vino. Sostenni che le colpe di quell'uomo non erano
da tucilazione, che aveva solo fatto la guardia ai mulini, che era un povero
uomo e proprio per questo era stato convinto ad aderire alla RSI. Riuscii a
convincerli e mio fratello accompagnò quindi il disgraziato al comando della
36a da dove venne rispedito a casa con l'ingiunzione di abbandonare la GNR.
A Casola trovai una bicicletta e mettendo bene
in mostra la gamba di legno mi avviai verso Lugo dove sapevo nascosto il
padrone. Ai Monteroni mi imbattei in un posto di blocco dei fascisti di Casola;
li salutai e proseguii indisturbato.
A Lugo trovai la casa padronale invasa dai
tedeschi e una vecchia domestica mi disse che il padrone si era trasferito
nella sua tenuta a 5. Agata. Qui la moglie del padrone mi indicò, dopo qualche
titubanza, il rifugio del marito. Mi inoltrai lungo una fila di peschi ed
infine vidi il padrone appollaiato su uno sgabello incastrato tra i rami di un
pesco.
Scese, ci salutammo e quindi gli esposi il motivo della mia visita. Ebbe
un gesto di disperazione e mi assicurò che non disponeva di una simile somma ma
avrebbe mandato il fattore a Lugo, da amici, per recuperarla. Mi disse che però
non ci contava molto che tutti gli amici lo avevano abbandonato. Passammo la
notte a parlare della situazione politica e di come andavano le cose a Casola.
Mi disse di sentirsi come un animale braccato: i partigiani lo cercavano per
il suo passato fascista, i tedeschi e i fascisti perché non aveva aderito alla
RSI. Provai compassione per quell' uomo che una volta a Casola e altrove
incuteva timore e rispetto e ora era alla disperazione.Il mattino seguente il
fattore, come era previsto, portò solo poche migliaia di lire che il padrone mi
affidò incaricandomi di riferire ai partigiani che per la parte mancante
potevano prendersi tutta la parte padronale dei suoi poderi. Non me la sentii
di consegnare al CLN la busta consegnatami da Bob e ripartii verso Casola. A
Valsenio trovai la pattuglia partigiana ad aspettarmi. Quando consegnai i pochi
soldi e riferii le parole del padrone imprecarono ed urlarono che bestie ne
avevano a sufficienza e che per prendere la parte padronale non avevano bisogno
del permesso del padrone. La stessa missione venne poi affidata a mia sorella e
con esito migliore grazie al maggior tempo concesso.