La Resistenza - La 36a Brigata Garibaldi "Alessandro Bianconcini"



Nel corso dell'estate del 1944, con l'intensificarsi della guerra e l'avvicinarsi del fronte, tutte le formazioni operanti nelle vallate del Sillaro (dove agiva un gruppo di Giustizia e Libertà), del Santerno, del Senio, del Sintria e del Lamone si aggregano o si collegano alla 36a Brigata Garibaldi che diventa così, per la sua notevolissima consistenza numerica e per la grande efficienza operativa, la spina dorsale del movimento partigiano dell'intero Appennino tosco-romagnolo centrale, e polarizza quindi naturalmente intorno a sé tutta l'attività della Resistenza nel territorio casolano. Questo fatto, unitamente all'importanza che questa formazione partigiana ricoprirà nel processo di sviluppo politico sociale ed economico del nostro comune, rende necessario a questo punto seguire momento per momento le sue vicende nel modo il più possibile documentato e analitico e nei loro diversi aspetti: militari, sociali e politici. Il discorso sulla struttura e sulla attività operativa della 36a  (che ha assunto il nome di «Alessandro Bianconcini» in onore del patriota comunista imolese fucilato dai nazisti, e che risulterà essere stata una delle più combattive formazioni della Resistenza italiana) servirà anche a chiarire il concetto della lotta partigiana come una guerra di tipo del tutto nuovo, non solo dal punto di vista strettamente militare (il che è persino ovvio, trattandosi non già di una guerra campale, bensì di una guerriglia condotta mediante l'impiego di piccole formazioni in rapide azioni prevalentemente offensive ed estremamente articolate), ma - quel che più importa - nuovo dal punto di vista umano, sociale e politico. Qualcuno si è spinto a questo punto a parlare addirittura di una guerra di classe, nel senso che per la prima volta in Italia sarebbero stati il proletariato urbano e le masse contadine a combattere con le armi in pugno contro chi in quel momento difendeva - sia pure in modo rozzamente mascherato da facinorosa demagogia - gli interessi dei ceti privilegiati; ma ci sembra questa una definizione piuttosto schematica, troppo ristretta, poiché trascura o sottovaluta tutta una serie di dati importanti sul piano sociale e politico che pure sono presenti nella composita realtà unitaria della Resistenza. Quel che è certo però è che nella guerra parti­giana si esprimono e sono anzi predominanti nella coscienza della quasi totalità dei combattenti dei supporti ideali, delle ansie di riscatto sociale, delle speranze in un assetto politico rinnovato più giusto e più libero che non possono non caratterizzare la Resistenza in senso socialmente e po­liticamente assai avanzato. E’ una guerra in cui soprattutto operai e contadini combattono fianco a fianco, come già era avvenuto nel deserto africano o nella steppa rus­sa, ma ora con ben altro spirito: là erano commilitoni in una tragica guerra non voluta ma subita, qui sono «compagni» in una impresa esal­tante e liberamente affrontata; la vittoria o la sconfitta avrebbero mu­tato poco o niente affatto il loro stato, qui l'esito della lotta potrà invece incidere direttamente sulle loro condizioni sociali, politiche ed economi­che; là erano gli Stati Maggiori a decidere sulla pelle di tutti, qui sono gli operai, i contadini che nelle assemblee partigiane eleggono i loro comandanti (almeno per un certo periodo) e scelgono i metodi, i tempi e gli obiettivi della guerra. La confluenza di motivi politici e motivi di classe, che si verifica per la prima volta nella nostra storia, è resa evidente dai canti popolari sorti in seno alla brigata, come questa canta dei braccianti romagnoli, adattata ovviamente alla nuova realtà:

E canta la sighéla: taja, taja
e gran a è patron, a e cuntadèn la paja;
e canta la sighéla: tula tula
e gran a è patron, a e cuntadèn la pula;
e canta la sighéla a e zugalèn
e gran a è patron, la pula a e cuntadèn;
i tedèsch, ifascèsta é sgnorpatrò
fan un fas e botll in tal parò.

Dal punto di vista militare la brigata, che pure annovera nel suo organico alcuni ufficiali dell'esercito, viene strutturata secondo un modello di formazione popolare completamente diverso da quello offerto dall'esercito tradizionale; essa costituisce in tal modo anche una grande esperienza di vita collettiva profondamente sentita da chi vi partecipa, armonizzando regole   normalmente contrastanti negli eserciti tradizionali di disciplina e di partecipazione, di senso del dovere e di rispetto della personalità. Ed è anche una esperienza di vita democratica che i partigiani porteranno con loro al rientro nella vita civile e che apporterà un prezioso contributo nella rinascita della nazione. La formazione è guidata dal comandante e dal suo vice, dal commis­sario politico e dal vice, dal capo di stato maggiore; alle loro dirette dipendenze opera la compagnia comando addetta ai servizi logistici, informativi, stampa, ecc.; ci sono quindi le compagnie, ciascuna con il suo co­mandante e commissario politico e rispettivi vice, capisquadra, capinucleo e infine militanti partigiani per un totale di circa 30 uomini ogni compagnia, saliti poi a 60 verso la fine dell'estate. Inizialmente i comandanti e i commissari di compagnia venivano eletti democraticamente dai partigiani e la loro nomina era ratificata poi dal comando. In seguito, soprattutto a causa di alcune scelte di base rivelatesi poi errate dal punto di vista della capacità militare, si dovette ripiegare da questa posizione democraticamente assai avanzata cosicché la nomina è proposta dal comando di brigata. Ma anche in questa seconda fase il parere prima e il consenso poi dei partigiani sono ancora determinanti, e questo per avere la sicurezza, in ogni momento, della esistenza di un rapporto di reale fiducia dei subalterni nei confronti dei comandanti, al fine di realizzare un'unità completa e compatta. Vi sono infine i GAP, formazioni speciali di 4-5 elementi ciascuna, col compito di effettuare attacchi improvvisi e particolarmente audaci contro pattuglie tedesche o fasciste e i loro automezzi; di compiere azioni dimostrative all'interno degli schieramenti avversari e anche di eseguire le condanne pronunciate dal tribunale partigiano. Esistono dunque anche nella brigata partigiana i comandanti (e naturalmente il dovere di obbedire ai loro ordini), ma essi non fruiscono di quelle prerogative autoritarie e di quei privilegi che sono invece caratteristici in generale degli eserciti tradizionali e in particolare di quello ita­liano: il giaciglio - spesso di fortuna- è lo stesso per tutti, il rancio pure, e durante le azioni di guerriglia i comandanti devono sempre stare in senso letterale alla testa dei loro uomini, pena l'allontanamento dalla formazione. Fa parte della brigata anche un gruppo di ragazze e di giovani donne che hanno scelto di vivere i sacrifici della lotta partigiana per motivi diversi - l'una per seguire i fratelli, l'altra il fidanzato, l'altra ancora per sfuggire alle rappresaglie nazifasciste     ma tutte (e questo è significativo!) avendo alle loro spalle tradizioni familiari antifasciste o una forma­zione politica orientata in tal senso. I compiti che vengono affidati a queste ragazze sono molteplici: infermiere, staffette, addette alla confe­zione del vestiario o alla preparazione del rancio. Si tratta dunque, come è facile capire, di mansioni ancora prevalentemente ausiliarie nei confronti dell'impegno di combattimento armato assegnato ai partigiani. Ma a parte che queste giovani donne erano soggette agli stessi rischi che correvano i combattenti, come testimonia il luminoso sacrificio di alcune di loro   questa partecipazione attiva delle donne alla lotta di liberazio­ne, sia come partigiane sia come collaboratrici, costituisce un fatto di grande importanza dal punto di vista politico e sociale: è infatti per questa strada che si comincia a realizzare concretamente da parte delle don­ne e della società civile più in generale il recupero di quella dignità, di quel rispetto, di quel diritto all'eguaglianza reale che la società prefascista prima, e tanto più il fascismo dopo in nome del mito della supremazia virile, avevano di fatto negato. Da questa partecipazione delle donne alla Resistenza prende insomma un deciso avvio quella battaglia per l'affermazione di una loro effettiva emancipazione che dovrà peraltro proseguire ben oltre la fine della guerra. Il denaro necessario per l'acquisto dei generi alimentari o di conforto affluisce alla cassa della brigata attraverso i «colpi di recupero», ma il problema finanziario rimarrà sempre uno dei più difficoltosi da risolvere da parte dei comandi partigiani pressati come sono da bisogni che lo stato di illegalità, a cui sono costretti, pone al di sopra di ogni considerazione. Oggetto dei colpi di recupero sono coloro che collaborano con la RSI o gli ex fascisti che si sono posti al di sopra delle fazioni. Nel com­pimento di queste operazioni che possono avere risonanze negative verso la popolazione i comandi partigiani attuano una particolare sorve­glianza al fine di evitare eventuali abusi o veri e propri atti di rapina. Tutto ciò che non può essere acquistato con il denaro, come le armi, l'equipaggiamento e il vestiario, viene procurato in minima parte mediante aviolanci alleati (oltretutto particolarmente scarsi per le Brigate «Garibaldi» che sono considerate troppo rosse), ma per lo più sottraen­dolo ai tedeschi e ai fascisti, oltre a quello che ogniuno riesce a portarsi da casa. La brigata assume così un aspetto molto variopinto per quanto riguarda la foggia degli indumenti:

…vestiti di tutte le fogge, dalle divise tedesche complete fin nei minimi par­ticolari, alle tute da operaio. Predominano i calzoni corti, per lo più di tela mimetica, che scoprono gambe muscolose, magre, abbronzate, piene di graffi. In testa, tutto il possibile: bustine militari italiane e tedesche, berretti da ufficiale, da tramviere, da portiere, da vigile urbano, da carabiniere; chepì da cavalleria e da capostazione, fez rossi da bersagliere, cappelli da alpino, colbacchi, caschi coloniali, sombreri, baschi, baschetti, cappelli di paglia da mietitore, caschetti da motociclista (...). Alla babilonia degli indumenti fa riscontro il bailamme delle armi: ogni arnese in grado, bene o male, di sputare una pallottola, è qui rappresentato. (...). Molte le barbe, ma molte anche le facce lisce degli adolescenti, e qualche volto duro, segnato, da adulto. Numerose le zazzere lunghe, che scendono sul collo: le portano con orgoglio, come distintivo di anzianità, i partigiani che non si sono tagliati capelli dal giorno che salirono in montagna. Quelli della 36a portano tutti in testa o al collo un fazzoletto rosso a pallini bianchi, molto diffuso tra i braccianti emiliani.


Parallelamente alle operazioni militari, in brigata viene svolta anche una intensa attività politica coordinata ai vari livelli (di brigata, di compagnia) dal commissario politico, un protagonista di primo piano della guerra partigiana in quanto è chiamato ad assolvere compiti di grande rilevanza politico-militare: anzitutto egli deve stimolare ed organizzare tutte le iniziative (assemblee, corsi di preparazione storico-politica e così via) che possono in qualche modo favorire una più matura presa di co­scienza politica da parte dei partigiani e soprattutto dei più giovani i quali affluiscono sempre più numerosi nella formazione garibaldina, ma la cui maturazione politica spesso non va oltre un istintivo rifiuto della prepotenza o della feroce cattiveria dei repubblichini e dei tedeschi; in secondo luogo è compito del commissario politico individuare e preparare ai futuri impegni i nuovi quadri non solo della brigata partigiana ma anche delle organizzazioni politiche e sindacali che potranno dispiegare una attività legale dopo la Liberazione. Oltre ai compiti politici egli deve anche provvedere al vettovagliamento e alla amministrazione della compagnia e rispettivamente della brigata. Il commissario infine è il primo uomo con cui entra in contatto stabile chi sceglie la vita del partigiano, e per cominciare a lui consegna il denaro che possiede tranne una piccola somma, i documenti di identità assumendo nello stesso momento il nome di battaglia con cui verrà da quel momento chiamato e riconosciuto dai suoi compagni, e ciò soprattutto al fine di evitare di essere eventualmente identificato e non esporre così i familiari alle rappresaglie dei fascisti e dei tedeschi. Si comprende da ciò tutta l'importanza della funzione dei commissari politici il cui impiego derivava dalle esperienze degli eserciti del popolo (l'armata rossa della rivoluzione, l'esercito repubblicano spagnolo); e proprio partendo dal riconoscimento di questa sua fondamentale impor­tanza la istituzione della figura del commissario politico inizialmente propria solo delle brigate garibaldine, fu in seguito estesa alle altre for­mazioni partigiane con una fisionomia politica di sinistra (brigate «G.L.», brigate «Matteotti»). Proprio perché una siffatta funzione richiede un non comune bagaglio di esperienze umane e politiche i commissa­ri generalmente sono uomini di una certa età; spesso sono reduci dal carcere fascista o dal confino, dove hanno avuto modo di consolidare e di ampliare la loro cultura generale e politica; qualche volta sono vetera­ni della guerra di Spagna, durante la quale hanno potuto conoscere per diretta esperienza i metodi di lotta dei nemici che ora si trovano di fronte. L'azione politica dei commissari della 36a (in maggioranza comunisti, ma ci sono anche giellisti, anarchici, socialisti), che trova il suo momento più intenso e più vivo nell'«ora politica», è incisiva a tal punto che alla fine dell'estate quasi tutti partigiani sono sensibili ai problemi politici e la grande maggioranza si sente comunista, anche se a questa definizione non sempre corrisponde un orientamento ormai consolidato in termini di precisa ed informata adesione all'ideologia e al programma del PCI. Questa situazione deriva certo in larga misura dal fatto che il Partito Co­munista appare a molti giovani come l'avversario più deciso del fascismo e come quello che meglio esprime la loro - magari istintiva - esigenza di un profondo rinnovamento della società italiana; ma è anche conseguenza della scelta operata dal partito che - a differenza di altri partiti antifascisti – non ha esitato a destinare alla lotta armata di liberazione una parte rilevante dei suoi quadri migliori. Ovviamente sono frequenti le discussioni anche piuttosto accese con i compagni di lotta che sono orientati verso altre ideologie e simpatizzano per altri partiti (in genere si tratta di studenti in prevalenza consenzienti con il programma liberal-socialista del Partito d'Azione); ma questa differenziazione di orientamenti e di scelte politiche non provocherà mai turbamenti o lacerazioni nella vita della formazione cosicché la brigata non registrerà nessuna defezione per motivi politici. Alla maturazione politica dei partigiani contribuisce anche il giornale della brigata: si tratta di un «foglio» dattiloscritto che il giovane studente bolognese Luciano Bergonzini (Stampa) riesce a compilare tra mille difficoltà, magari suscitando poi critiche ed elogi per un articolo, ma dando ad ognuno la possibilità sia di contribuire alla sua compilazione, sia di poter finalmente leggere ciò che aveva cercato invano per vent'anni sulle pagine dei giornali del regime.

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L'assistenza sanitaria organizzata   che pur rappresenta un servizio estremamente importante - compare relativamente tardi nella vita della 36a Brigata e viene realizzata da un esiguo gruppo di medici, studenti in medicina e infermiere aggregati alla compagnia comando. Fra i giovani medici partigiani ci sarà qualcuno destinato a scrivere alcune tra le pagi­ne più belle e gloriose della Resistenza, immolandosi per tener fede al giuramento di assistere i compagni feriti e di non abbandonarli anche quando ciò significa cadere nelle mani spietate dei nazifascismi. I metodi della lotta partigiana che prevede soprattutto azioni a lungo raggio non permettono però sempre un immediato soccorso ai feriti che sono quindi costretti, come nei primi mesi di guerriglia, a far capo ai medici condotti dei paesi e anche, con le dovute cautele e nei casi più di­sperati, agli ospedali. Ecco allora il dottor Rino Cenni che, avvertito da una staffetta, sale, se pure senza grande entusiasmo e con un certo timore, verso Monte Battaglia o Settefonti o ancora Valdifusa per curare dei feriti partigiani rischiando di essere scoperto dai fascisti che sorvegliano la sua ne; e sempre senza ricompense, anche quando queste vengono offerte spontaneamente, ma per tener fede al suo giuramento di medico che gli impone di assolvere la sua missione al di sopra di ogni situazione di pericolo o convenienza.