La Resistenza - La base di Cortecchio


In base a questi orientamenti di un rapido avvio della lotta armata una trentina di giovani provenienti da Conselice, Riolo Bagni e Imola, già alla fine di novembre, tramite l'organizzazione del PCI imolese e riolese, si sono insediati nel podere abbandonato denominato L'Albergo di Cortecchio, nella parte alta della valle di Sommorio. Da qui essi si trasferiscono poi in Toscana, alle pendici del Monte Falterona, dove sono in corso di costituzione le formazioni garibaldine verso le quali viene orientato, in un primo tempo, quasi tutto il movimento partigiano romagnolo (all'inizio in larghissima maggioranza organizzato dai comunisti delle città di pianura). Nel gennaio del 1944 un altro gruppo sale a Cortecchio, ormai diventato la base di appoggio per il successivo trasferimento sul Falterona: per questo gruppo però il trasferimento viene rimandato a causa della neve che ostruisce i sentieri della montagna.  I collegamenti con la base principale di Imola vengono mantenuti tramite staffette, cioè uomini anziani che data la loro età non possono vivere stabilmente nei disagi di Cortecchio, ma possono muoversi senza destare troppi sospetti. Tra questi è Guido Ricciardelli che come gli altri provvede a far pervenire all'Albergo vestiario, libri, stampa antifascista, armi: cose tutte necessarie sia per superare i disagi della vita clandestina in un ambiente che offre ben poche risorse naturali, sia per favorire una progressiva presa di coscienza ideologica e politica dei partigiani e dei contadini della zona in cui i primi operano. Le armi, si capisce, sono gli strumenti più preziosi intanto per difendersi e poi per prepararsi a strappare ai nazifascisti zone libere sempre più vaste. Scarsa è in questo periodo l'influenza che la permanenza di questo gruppo esercita sulla attività resistenziale casolana nel suo complesso; i rapporti che vengono allacciati sono limitati a qualche antifascista nel paese come Guido Ricciardelli o Antonio Bambi (Pochéna), i quali per ora agiscono soprattutto su un piano individuale e sono costretti ad una severa precauzione cospirativa. Ben più importante, anzi fondamentale per il futuro sviluppo della lotta partigiana, è invece l'influenza esercitata da questo primo nucleo partigiano sui contadini della valle di Sommorio che costituirà da allora una zona in cui i patrioti troveranno sempre sicurezza ed aiuti. I contadini di montagna, che avevano ritenuto i primi partigiani semplicemente dei soldati fuggiaschi e soprattutto per un senso di solidarie­tà umana li avevano accolti nelle loro case per rifocillarli, dividendo con loro quel poco che avevano, si accorgono ora che questi sono partigiani. Il loro atteggiamento nei confronti di questi strani «banditi» non muta però, anzi! Benché questi montanari non operino ancora una scelta di partecipazione attiva alla lotta (come ad esempio accogliendo la richiesta di aggregarsi al reparto) essi forniscono tuttavia un concreto e prezioso sostegno materiale e morale: accolgono alla sera nelle loro case i partigiani, e qui questi possono riscaldarsi e mangiare qualcosa e intanto parlare dei motivi della loro scelta; le donne della casa magari rattoppano i loro vestiti, gli uomini prestano gli attrezzi per far legna o per rendere più abitabili le fredde e squallide stanze dell'Albergo. Non è facile individuare con persuasiva analisi le ragioni di questo pressoché immediato atteggiamento di simpatia e di sostanziale appoggio dei contadini di montagna nei confronti dei primi gruppi partigiani. Si può tentare però di avanzare alcune ipotesi: la prima è che certamente i giovani saliti in montagna dalle città e dai paesi della pianura si colloca­no  chi più, chi meno   ad un livello culturale in ogni caso superiore a quello dei loro ospitanti, nella gran parte semianalfabeti, soliti guarda­re con rispetto ed ammirazione «chi sa» (il prete, il padrone, il fattore). La seconda è che certamente questi «banditi» di tipo nuovo, nei loro discorsi durante le riunioni a cui partecipano anche i contadini, esprimono in qualche modo, magari istintivamente, un'ansia di giustizia, una speranza di una nuova società che non possono trovare insensibile una po­vera gente abituata da sempre ad una vita di stenti, di ingiustizie soppor­tate sì pazientemente ma intese come tali, di degradazione morale socia­le ed umana. Poi ci sono i discorsi contro la guerra, contro i tedeschi e i fascisti che l'hanno voluta, e magari in molte di quelle famiglie contadi­ne ce da contare un morto, un disperso, un prigioniero, un figlio o un marito che non si sa dove sia finito. Infine si deve citare l'atteggiamento preso da alcuni possidenti (tra cui addirittura organizzatori delle squadre fasciste del '21), i quali, come abbiamo già ricordato, ora si sgancia­no dalla RSI e forniscono un appoggio alle prime formazioni partigiane arrivando perfino a rifornirle di qualche sacco di patate e di alcune paia di scarpe, badando in generale a non compromettersi troppo né in un senso né nell'altro al fine di superare col minimo danno, sia dal punto di vista personale che patrimoniale, il trapasso dal fascismo al nuovo Stato. Il 23 febbraio ha luogo il primo scontro a fuoco della lotta di libera­zione nella nostra zona, allorché la Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) di Imola, con quella di Faenza e con reparti della Polizia Ger­manica di stanza a Bologna, in base alla segnalazione di alcuni informatori, attua un rastrellamento avente come obiettivo la località di Cortecchio. Verso sera del 22, quattro colonne di una sessantina di uomini l'una partono rispettivamente da Castel del Rio, Coniale, Badia di Susinana e  Apollinare per stringere in una morsa senza scampo i partigiani che ignari di quanto sta accadendo stanno dormendo all'interno della casa colonica del podere Albergo . Nella notte una bufera di neve rallenta ed ostacola il passo degli assalitori tanto che l'Albergo viene raggiunto solo il mattino del giorno 23 e da una sola colonna (quella proveniente da 5. Apollinare) nello stesso momento in cui una squadra partigiana lascia la base alla ricerca di viveri. Lo scontro è inevitabile, immediato e violento: la pattuglia partigiana riesce a sottrarsi al tiro dei fascisti e a nascondersi nei boschi circostanti. Altri partigiani, svegliati dal rumore degli spari, riescono ad uscire dalla casa in tempo e ad allontanarsi tenendo distanziato il nemico. I rastrellatori si portano allora a ridosso della casa crivellandola di pallottole; poi il silenzio scende sulla casa e sulla valle. I fascisti, convinti di trovare so­lo dei morti, entrano urlando; ma il primo, un brigadiere della GNR di Imola tristemente noto nel Casolano per le sue angherie, viene freddato sulla soglia da cinque giovani partigiani ancora asserragliati all'interno. Si ingaggia un nuovo violento combattimento reso impari dalla enorme sproporzione delle forze e dal cattivo funzionamento delle armi e delle munizioni dei partigiani, impregnate di umidità. I fascisti riescono poi ad appiccare il fuoco alla casa, ma tra il fumo ne avanzano solo due, a mani alzate; un altro è riuscito a mettersi in salvo approfittando della confusione, mentre gli ultimi due giacciono all'interno privi di vita: sono i primi caduti della Resistenza nel territorio di Casola. I prigionieri ven­gono poi portati a Casola e da qui a Imola; i due patrioti morti - Dante Cassani, un sarto diciassettenne di Bubano e Libero Zauli di Riolo Ter­me, garzone di contadino di 18 anni   vengono sepolti dai contadini nel cimitero di Susinana, sfidando le intimazioni dei fascisti che dopo aver sfigurato e depredato i due cadaveri di ogni loro povero avere, ne aveva­no impedito la sepoltura. I superstiti del gruppo di Cortecchio si trasferiscono poi con altri in parte sul monte Falterona, nelle brigate romagnole che qui si stanno formando, in parte ritornano alle basi di partenza in pianura dove si stanno costituendo i primi nuclei armati; tutti si ritroveranno a primavera al monte Carzolano sopra Palazzuolo con un bagaglio molto più ricco di esperienze di lotta, di armi e ben più numerosi rispetto al primo drappello che ha combattuto a Cortecchio. Dopo il rastrellamento del 23 febbraio il Comitato di Zona imolese del PCI, tramite il Comando Unico Militare dell'Emilia-Romagna (CU­MER) che rappresenta l'organizzazione militare regionale del CLN  riprende immediatamente il lavoro per l'invio di un forte contingente al­le brigate del Falterona. Il 1 marzo un primo gruppo parte da Imola e si porta a Monte Mau­ro dove trova un rifugio abbastanza comodo nella chiesa abbandonata che diventa il centro di raccolta dei partigiani che salgono dalla pianura. Per tre giorni si susseguono gli arrivi e ai «vecchi» di Cortecchio   tra cui Giuseppe Nardi (Caio) e Luigi Tinti (Bob)   se ne aggiungono tanti che in un paio di giorni la formazione raggiunge la consistenza di un centinaio di uomini, armati per lo più coi fucili nascosti dopo la disfatta dell'esercito. Il 3 marzo il contingente partigiano parte da Monte Mauro e dopo una marcia di 4 giorni si congiunge alle formazioni operanti sulle pendici del Falterona.  Del gruppo fanno parte anche due giovani contadini di Valsenio che hanno preso contatto con Nardi, incaricato di guidare il gruppo, tramite Angelo Morini, dirigente del CLN di Riolo Bagni, che seppure in modo discontinuo e limitato estende la sua influenza politico­organizzativa oltre il confine territoriale del comune fino alle parrocchie di Valsenio, Mongardino, Settefonti e Pozzo.