La Resistenza - "Ribelli" alla macchia



L'annientamento di quello che può essere considerato il primo embrione del futuro CLN coincide (in un certo senso favorendola oggettivamente) con la formazione del primo gruppo di antifascisti che si dan­no alla macchia, cioè di coloro che, o volontariamente o perché costretti, hanno deciso di rompere i ponti alle loro spalle, non più limitandosi quindi a restarsene nascosti a casa per andare semmai alla ricerca di qualche rifugio di fortuna volta per volta in caso di una retata fascista dei renitenti, ma scegliendo intanto di mettersi apertamente dall'altra parte, sia pure, per il momento, nell'ansiosa attesa di realizzare gli indispensabili collegamenti e di entrare in possesso delle armi necessarie per diventare anche una formazione partigiana combattente.
Verso la fine di novembre i fascisti di Casola si prestano diligentemente a garantire anche sul piano logistico la buona riuscita della prima leva repubblichina: caricano su due camions i giovani del comune che si devono presentare alla chiamata alle armi e li portano al distretto militare di Ravenna. Arrivati qui, Domenico Neri (Mino), Aurelio Ricciardelli, Giovanni Tabanelli, Giovanni Dardi, Mario Poli vengono a sapere che molto probabilmente verranno trasferiti in Germania e quindi decidono assieme di scappare e di ritornare a casa. In treno fino a Solarolo, poi a piedi, attraversando Castelbolognese e risalendo Monte Mauro, raggiun­gono la Soglia, abitata da una famiglia notoriamente profondamente antifascista, dove riescono a prendere contatto con Torquato Visani che più o meno vagamente si sapeva facente parte della cellula clandestina del PCI. Visani procura loro un paio di coperte, qualcuno di quei fucili nascosti dopo l'8 settembre e un po' di munizioni. Dalla Soglia il gruppetto si sposta a Monte Battaglia dopo che Mino Neri ha fatto un salto a casa sua, al Cozzo, per prendere alcune armi preventivamente nascoste, e si sistemano nella casa colonica sotto il tor­rione semi-diroccato, abbandonata dal contadino l'anno prima. La vita in cima al monte è molto grama: di notte le giovani «reclute partigiane» dormono nel capannone della Canovaccia, usando le felci come materasso; per mangiare oltre il poco che riesce a procurare loro Visani, si arrangiano con bacche, nespole e castagne vecchie. Di giorno si esercitano a sparare, qualche volta vanno a caccia, spesso discutono anche se le cognizioni non sono molto precise - della situazione politica e di quella che appare la via migliore per proseguire la lotta. Il motivo che li ha spinti lassù e che emerge da queste discussioni è la volontà di non combattere più, specialmente agli ordini dei tedeschi e dei fascisti. Per qualcuno vi sono anche motivazioni politiche che hanno una influenza più o meno coscientemente avvertita: c'è ad esempio Mino Neri che, studente universitario a Bologna, è entrato in contatto con gruppi antifascisti che vi operano; c'è Aurelio Ricciardelli che è cresciuto in un ambiente familiare con profonde radici socialiste ed egli stesso ha avuto qualche contatto con i giovani comunisti della cellula clandestina; c'è Giovanni Tabanelli che quando lavorava come garzone nei poderi della pianura ro­magnola ha avuto la possibilità di assistere a qualche furtiva riunione che le strutture clandestine del PCI organizzavano per preparare la lotta contro il fascismo. Per gli altri del gruppo c e invece una istintiva ed elemen­tare ribellione contro la guerra e ciò che essa rappresenta in fatto di soffe­renze e di pericoli, una rivolta che non comporta ancora una maturazione più precisa di coscienza politica e sociale anche se ne costituisce la indispensabile premessa, come i fatti successivi dimostreranno. Eppure proprio per questa eterogeneità, per questa diversità di provenienza sociale, di motivazioni e di riferimenti ideali e politici, questo piccolo gruppo dei primi «ribelli» casolani rappresenta gia in minuscole proporzioni quella che poi sarà la complessa dimensione della Resisten­za, nelle sue componenti politiche (comunisti, socialisti, «giellisti» a fianco di cattolici e anche di «badogliani») o sociali e culturali (l'operaio e il contadino semianalfabeta assieme al professore universitario), differenziata persino nei suoi obbiettivi di fondo (per alcuni si tratta soltanto di liberare l'Italia dai tedeschi e dai fascisti, per altri   e sono i più di cominciare anche a costruire un paese nuovo, una nuova società), e tuttavia profondamente «unitaria», nonostante queste differenziazioni delle varie componenti. I pochi ragazzi della Canovaccia hanno tra loro in comune il rifiuto della prepotenza fascista, la rivolta della loro coscienza patriottica contro lo scempio che i nazisti fanno della nostra indipendenza nazionale - con la complicità servile del fascismo di Salò - e un'esigenza più o meno istintiva di una società meno ingiusta. Man mano che passano i giorni la situazione, già dura per fattori ambientali, si fa sempre più pesante: cresce il senso di isolamento, non si può contare su una organizzazione antifascista operante in paese, non ci sono uomini od indicazioni in grado di stabilire un contatto con la for­mazione partigiana che intanto Gino Monti ha organizzato nella media valle del Lamone e nel Faentino . Lassù qualcuno li ha visti e in paese già si parla di «banditi», di «ribelli» attestati a Monte Battaglia. Poi un giorno Visani porta la notizia che alcune madri, temendo che la situazione dei loro figli potesse ulteriormente aggravarsi, minacciano di denunciarli ai fascisti se non si presenteranno al distretto. Dopo una breve riunione il gruppo decide di scendere in paese, non senza aver prima espresso tutta la sua rabbia per l'impotenza forzata cui è costretto rivolgendo una scarica di fucileria verso l'antica torre. Solo Mino Neri col suo fucile in spalla prende un'altra strada, quella dei monti più alti, dove  si dice - stanno per formarsi le prime bande partigiane. I giovani renitenti si presentano dunque senza conseguenze, anche perché di fronte all'alto numero di coloro che non hanno risposto alla chiamata di leva i fascisti sono stati costretti ad emanare un bando di condono per i pentiti; ma già a Natale i componenti di quel gruppo, con alcuni altri casolani, fuggono dalla caserma di Firenze e a piedi raggiungono Casola dove ognuno cerca un nascondiglio in attesa che con la pri­mavera si realizzino le condizioni per una partecipazione più attiva alla lotta antifascista. Anche Neri in un secondo tempo si presenta al distretto per motivi di studio, ma se ne allontana subito per nascondersi presso Baffadi. Le delusioni e le difficoltà delle prime forme di lotta partigiana sono la conseguenza diretta e pressoché inevitabile della mancanza di una organizzazione resistenziale operante nella vallata, in grado di raccogliere e di guidare politicamente e di aiutare anche sul piano logistico (fornendo armi, ricoveri, viveri) i giovani che vorrebbero darsi alla macchia. Per le stesse ragioni anche a Palazzuolo un piccolo gruppo, che dopo una riunione tenuta alla Capanna di Nivale verso la metà di ottobre aveva dato vita alla prima formazione partigiana della valle del Senio, è co­stretto ben presto a disperdersi. Diversa è invece la situazione nelle città e nelle campagne della pianura dove i partiti antifascisti sono meglio organizzati e più presenti e quindi maggiormente in grado di preparare la lotta armata - che qua e là già si accende, magari per iniziativa spontanea -  in quanto solo con essa si può rafforzare il movimento antifascista ed antinazista, superando così la resistenza di quelle forze che, anche all'interno del CLN, propongono una posizione di attesa, puramente difensiva, aspettando gli al­leati che avanzano rapidamente lungo la penisola.