Il mio compito nell'ambito della
compagnia di Pirì, inquadrata nella 36a Brigata Garibaldi, era di provvedere
all'alimentazione. Un compito gravoso sia perché la montagna tra Palazzuolo e
Firenzuola era poco produttiva e poco coltivata, sia perché le famiglie
contadine erano di una povertà estrema, ma soprattutto perché si operava sempre
in zona di guerra e si doveva quindi combattere anche per procurarsi da
mangiare.
Non vi erano cioè le condizioni di una guerra tradizionale con i
soldati impegnati in prima linea e le retrovie che li riforniscono dei generi
di sussistenza. Si mangiava tutto ciò che era commestibile, sperimentando nuovi
alimenti o nuovi modi di trattarli; si mangiava molto pane e molta carne che
veniva cotta in grosse caldaie e che spesso procurava fastidiose conseguenze.
Quando trovavamo le uova si faceva anche la minestra.
Ciò però che ci permise
di sopperire alla mancanza di una alimentazione accettabile fu la farina di
castagne: senza questa la vita in montagna sarebbe stata molto più dura. Il
formaggio costituiva il companatico per eccellenza per la facile trasportabilità
e la lunga conservazione: due fattori importanti in una guerra che imponeva
spostamenti rapidi e continui.
Il comando della Brigata funzionava da centro di
raccolta e di distribuzione delle eccedenze alimentari di ogni compagnia.
Quando una compagnia aveva una quantità di generi commestibili superiore ai
bisogni immediati trasportava il di più al comando da cui riceveva poi le
eccedenze di altre compagnie così che era possibile variare l'alimentazione; si
evitava di distruggere dei beni preziosi e si assicurava il sostentamento anche
alle compagnie che per vari motivi (come ad esempio uno scontro a fuoco) non
erano state in grado di provvedervi.
Anche l'alimentazione dunque (come tutte
le attività e la vita della Brigata) era regolata da una grande giustizia: non
vi erano preferenze, neanche per il comando; anzi lì si mangiava spesso peggio
che nelle compagnie dove ovviamente si fermavano i generi migliori. Quando
prelevavamo dei generi dai contadini il comando ci aveva imposto in modo
tassativo di rilasciare un buono per la parte padronale e pagare la parte del
contadino.
Capitava anche che fossero gli stessi contadini a portare la parte
del padrone o a liberare dei capi di bestiame nella zona controllata da noi
piuttosto che cederla forzatamente ai tedeschi. Di queste bestie una parte fu
rnacellata e una parte potè essere recuperata dagli stessi contadini.
Un
episodio rende l'idea di quanto potesse essere importante e pericoloso un
compito in apparenza semplice come l'alimentazione. Dopo due giorni di
bombardamento tedesco sulle nostre posizioni alla Bastia, il comando mi incaricò
di raggiungere Rimirara, un gruppo di case in parrocchia di Valsalva, e li
preparare il pane per la
Brigata.
Qui contrattai l'acquisto di
8 quintali di farina pagandola circa il doppio del prezzo dell'ammasso col
patto però che il mugnaio distribuisse la farina presso una decina di case
coloniche della valle di Sommorio. Il mulino era sorvegliato dalla GNR, ma il
mugnaio mi fece capire che non ci sarebbero stati contrattempi perché era
diventata pratica quasi corrente allontanare la guardia repubblichina con la
promessa di una percentuale sul grano macinato abusivamente: la paga della GNR
così allettante nei primi tempi ora era largamente insufficiente di fronte al
forte aumento del costo della vita.
Passai quindi dai contadini per avvertirli
dell'arrivo della farina che doveva essere trasformata in pane e quindi portato
a Rimirara per il mattino seguente.
I contadini lavorarono alacremente per
tutta la notte e poco prima dell'alba vedemmo giungere nell'aia di Rimirara
birocci e tregge cariche di pane.
Quasi nello stesso momento dalla macchia
spuntarono i compagni della 36a reduci da giorni e notti di continuo
bombardamento e da una lunga ed estenuante marcia notturna resa ancora più
difficoltosa dalla impossibilità di mangiare a causa dell'attacco nemico.
Ad
ognuno fu consegnata una tiera di pane fresco (erano circa mille) e quella
mattina i partigiani mangiarono solo quella, ma fu lo stesso un gran sollievo
per tutti. Le compagnie vennero poi sistemate nelle case coloniche della
parrocchia di Sommorio e venne impartito l'ordine di non ingaggiare
combattimenti se non attaccati per dar modo di riorganizzare le compagnie dopo
le dure prove della Bastia. Alcuni partigiani espressero la volontà di andarsene
e il comando non solo non si oppose ma mi incaricò di guidarne una dozzina fino
a Mercatale, da dove avrebbero proseguito da soli verso Castelbolognese e
Faenza.
La relativa calma della sosta a Sommorio e il lavoro insieme ai
contadini delle case che ci ospitavano ci ritemprarono e dissiparono in parte
la tensione che ci attanagliava a causa di una guerriglia spietata. Ricordo che
mentre trebbiavamo il grano insieme ai contadini di Sommorio ricevemmo la
visita di una guardia repubblichina (un poveraccio di una casa vicina a
Sommorio) del presidio di Casola, mandata a controllare la trebbiatura.
Lo
lasciammo avvicinare ignaro (noi partigiani eravamo vestiti come i contadini) e
quindi lo circondammo, gli togliemmo la divisa e le armi ed in mutande lo spedimmo
a casa facendogli attraversare di corsa le asperità della macchia.
Quel periodo
di tranquillità durò poco non più di dieci giorni -, poi passammo
il Senio e ricominciarono gli scontri contro i fascisti e i tedeschi e la lotta
contro la dura vita della montagna.